La pessima salute di ferro del governo Sánchez

9 Aprile 2022

[Maurizio Matteuzzi]

Qualcuno tracciando, nel gennaio scorso, un bilancio di metà mandato della coalizione fra i socialisti del PSOE e la “nuova sinistra” di Unidas Podemos, scrisse della “pessima salute di ferro del governo progressista spagnolo”. Un ossimoro azzeccato.

Ma in pochi mesi lo scenario anche in Spagna è drammaticamente cambiato e l’attacco in febbraio della Russia di Putin all’Ucraina con la relativa risposta NATO-UE – e anche molto altro – ha mandato giudizi e previsioni a carte quarantotto. E se oggi lo stato di salute del governo guidato da Pedro Sánchez resta pessimo, non appare più nemmeno così di ferro. Molti in Spagna considerano questo il passaggio più critico da quando nel gennaio 2020 il governo ottenne l’investitura delle Cortes. C’è anche chi, non solo in una destra colpita anch’essa dalla crisi, vede non più così sicuro l’approdo della legislatura alla sua naturale scadenza elettorale nel 2023.

Fino a fine 2021, nell’imperversare della pandemia, il governo di coalizione fra due soci che non si amano ha in buona sostanza tenuto fede agli impegni presi e implementato la “agenda progressista” faticosamente pattuita. Livelli record di spesa in sede di bilancio, misure sociali, riforme delle pensioni e del lavoro, leggi a forte impatto simbolico e politico quali eutanasia, riders, reddito minimo vitale, affitti, trans e LGBT, violenze di genere e femminicidio, memoria democratica, clima e transizione energetica verde, campagna di vaccinazione che ha toccato l’80% della popolazione, sblocco dell’impasse catalana con tanto di indulto per i leader indipendentisti…

La ripresa economica, dopo il disastro provocato nel 2020 dal covid, non ha però assecondato, finora, le speranze di Sánchez.  Nel ’21 l’occupazione ha superato per la prima volta i livelli del 2007, ma la crescita del 7.2% annunciata dal governo per quell’anno è andata via via riducendosi: prima al 6.5% per poi scendere al 5%. Il maggior tasso di crescita dell’ultimo ventennio ma pur sempre troppo basso. Soprattutto considerando che nel dicembre scorso il tasso d’inflazione era già schizzato oltre il 6% per poi lambire, con gli effetti collaterali della guerra in Ucraina – bollette di luce e gas, prezzo di gasolio e benzina, annunciato aumento delle spese militari dei paesi NATO, etc. etc. – la soglia insostenibile del 10% a fine marzo.

Pedro Sánchez e il suo governo, sotto assedio di una rabbiosa destra storica – il Partido Popular – che non si rassegna a non essere più al potere e di una nuova destra cavernicola – i fascio-franchisti di VOX – che è ormai il terzo partito spagnolo, non possono fare a meno di una economia che corra veloce, pena il rischio di regalare le bandiere della protesta alla piazza e ai gilet gialli di cui si vedono già i sintomi nelle massicce manifestazioni e scioperi di trasportatori, agricoltori, pescatori, autonomi, etc.; nonché il rischio che, come accaduto in altri paesi (la Francia, l’Italia), i ceti popolari delusi dalla sinistra riversino i loro voti sulla destra.

Sánchez lo sa bene. Per questo a fine di marzo ha annunciato un “Plan de Choque de Respuesta a la Guerra”, un “piano d’urto” anticrisi da 16 miliardi di euro che prevede uno “escudo social” con tagli fiscali e aumento del reddito minimo vitale.

Se basterà e funzionerà è da vedere. Decisivo sarà il fattore tempo. Perché il 2023, anno di elezioni regionali e politiche, è vicino mentre il rimescolamento fra e nelle forze politiche è al massimo.

Il PSOE, dopo la svolta centrista nel congresso di ottobre, è forse tentato di rompere con Podemos (almeno questo è il timore di Podemos che non si fida di Sánchez) per giocare la carta della grande coalizione con il PP che ha appena cambiato la leadership.

Il Partido Popular, che si è liberato del fallimentare Pablo Casado e  ha appena eletto col 98% dei voti il suo nuovo leader,  Alberto Núñez Feijóo, presidente della Galizia, “moderato e centrista”, è chiamato a decidere se continuare e formalizzare  l’alleanza con l’ultra-destra di VOX come già accade in molte città e regioni (la linea della presidente della Comunidad di Madrid, la sfegatata trumpista Isabel Díaz Ayuso) o  rilanciare una linea di centro-destra e/o avventurarsi in una qualche forma di appeasement con il PSOE .

Podemos che perde peso elettorale e ingoia rospi (l’ultimo la clamorosa giravolta con cui Sánchez riconosce la sovranità del Marocco sul Sahara Occidentale, ex colonia spagnola, a danno del Fronte Polisario) ma non rompe perché “siamo l’unica garanzia che il governo faccia politiche progressiste”. E aspetta con crescente nervosismo che la comunista Yolanda Díaz, popolarissima ministra del lavoro, avvii il suo progetto di “Frente Amplio” nell’arduo tentativo di riunire gruppi e gruppuscoli della nuova sinistra che si sono andati frantumando.

Poi c’è VOX, che incalza il PP di Núñez Fejóo intimandogli di “decidere con chi vuole negoziare”, se con Pedro Sánchez e il suo governo chavista in salsa iberica o con i patrioti anticomunisti di VOX.

Saranno due anni di fuoco.

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