La rivoluzione è un pranzo in casa

1 Ottobre 2011

Piero Careddu

Le piantagioni dell’utopia. Sarà un caso che in Italia le dittature durano tutte più o meno vent’anni?  Una delle ultime che ci siamo dovuti sciroppare, a cavallo fra i due secoli, è stata quella del Ventennio della Cucina Finto-Creativa, quella le cui parole d’ordine erano: Credere, Sifonare, Stupire!  Vent’anni  di scimmiottamenti della cucina di Adrià, personaggio rispettabilissimo  se non altro per essere un caposcuola,  e vent’anni di spume,  di deliri azotati,  di stregonerie molecolari e di scatole spesso vuote . Se non facevi  la tua brava schiumetta di parmigiano  da accostare al filetto di carne, possibilmente di provenienza esotica, eri un povero coglione  e guai a te se la presentazione del piatti non seguiva i criteri delle ultime tendenze del design nippo-newyorkese!  I tempi son cambiati?  Mica tanto. Nel senso che è cambiato il ritornello ma sempre di tormentone si tratta. Adesso il refrain è il ritorno alla tradizione: la riscoperta dei piatti della nonna, della zia, della mamma percorrendo tutto l’albero genealogico. Per non parlare delle trattorie famigliari “vorrei ma non posso” che nascono come funghi.  E così non se ne esce mai:  tutto quello che appare o riappare, anche quando le intenzioni sono le migliori e le più nobili come in questo caso,  deve passare nel tritacarne della moda ed essere trasformato in tendenza.  La ricetta è più o meno sempre quella:  mettere in pentola un po’ di luoghi comuni, farcirli  di abbondante superficialità e servire il tutto caldo all’informazione cosiddetta specializzata che provvederà a poggiare sul piatto la ciliegina dell’omologazione;  si raccomanda di tenersi alla larga da un serio lavoro di ricerca storica e di rigorosa scelta di materie prime del proprio territorio.  COSA SARA’ MAI LA TRADIZIONE GASTRONOMICA? Facili ironie a parte, sarebbe utile chiarirci le idee sul significato di una parola tanto bistrattata e come poche altre suscettibile di interpretazioni antitetiche. In una regione ad alta vocazione turistica come la Sardegna dove la domanda di accoglienza è circoscritta a un periodo sempre più breve, l’offerta di una ristorazione prevalentemente stagionale è proiettata verso la perpetuazione di un limitato numero di piatti-bandiera, che vengono riproposti con esecuzioni più o meno gradevoli, senza il minimo sforzo  di rinnovamento e,  considerando l’ansia di realizzare fatturati decenti in pochi giorni di stagione, senza alcuna attenzione verso la valorizzazione della materia prima locale. Ecco perché le nostre coste sono diventate un florilegio, oltre che di colate di cemento, di ristoranti e pseudo-trattorie che utilizzano le sirene di una cucina tipica che non si capisce bene a cosa si richiami e di cosa sia rappresentativa visto che, per almeno il 70%, le forniture di materie prime fresche e/o a media conservazione provengono dai capannoni dei cash&carry locali. Ha senso parlare di ristorazione medio-alta e di cucina tradizionale facendo la spesa in giganteschi supermercati all’ingrosso che importano da ogni parte del mondo dalla cipolla, al pelato, passando per l’olio extravergine? Detto questo l’unica definizione credibile e attuale di Gastronomia della Tradizione è quella di cucina legata al territorio di appartenenza, alla stagionalità, alla freschezza ed eccellenza assoluta dei prodotti utilizzati. Partendo da queste condizioni di base, dalle quali è impossibile prescindere, allora possiamo affermare che, pur mantenendo vivi i piatti della memoria e la loro valenza storico-culturale, è importante creare nuove preparazioni che arricchiscano il menu’ della tipicità. La seada, i malloreddus, il filindeu non esistono da sempre, qualcuno li avrà inventati e poi la storia li ha trasformati in piatti identitari e immortali. Deve essere però chiaro che la tradizione non è statica ma sempre proiettata verso un dinamico rinnovamento: tanto per capirci, chi crea un piatto assolutamente inedito con dell’agnello delle colline del proprio circondario,  sta facendo tradizione! La vera cucina creativa, in sostanza, era quella delle nostre nonne e bisnonne che, sotto la pressione di  famiglie numerose da sfamare con pochi mezzi, hanno creato pagine memorabili di cucina mediterranea. SCELTE DI CAMPO OBBLIGATE PER  LE CUOCHE E I CUOCHI. Oggi chi trasforma cibo a qualsiasi livello, sia esso ristoratore, chef o madre di famiglia ha davanti a se enormi responsabilità nella maggior parte dei casi sottovalutate. Se è vero, come è vero, che la maggior parte di quello che acquistiamo per le nostre tavole, proveniente dai canali della grande distribuzione, è composto  essenzialmente da veleni di ogni genere, oggi più che mai chi cucina è obbligato a fare delle scelte di campo chiaramente orientate alla salvaguardia dell’ambiente e della salute dei destinatari del cibo preparato.  Il tempo dei compromessi e degli inganni è finito: se il cuoco non si trasforma in una delle sentinelle dell’ambiente, con una forte capacità di cercare e trovare prodotti sani, stimolando agricoltori e allevatori, e lavorando sui sapori veri, non può meritare alcuna credibilità. Per quanto mi faccia male al cuore non posso non  sottolineare che le massaie, quelle diventate madri nel secondo dopoguerra, sono tra le artefici della decadenza delle cucine regionali d’Italia. Il boom economico, l’ubriacatura di benessere di quegli anni, l’informazione che iniziava a pilotare i consumi in funzione del potere delle grandi aziende, hanno deviato l’attenzione di chi avrebbe dovuto salvare l’enorme giacimento di piatti e idee verso scorciatoie fatte di supermercati, surgelati, liofilizzati.  L’esempio che spesso faccio è quello della mamma che, ancora oggi, prepara la seada al figlio studente fuori sede che torna al paese per Pasqua: spesso quella seada è preparata con farina industriale e peretta di caseificio e condita con un miele dozzinale. Non credo sia questo il modo di mantenere viva la memoria di uno di quei pilastri della nostra identità che è la cucina;  così come qualsiasi programma politico non può essere credibile senza  la centralità dei problemi dell’ambiente, altrettanto la cucina tradizionale non può essere considerata degna di attenzione se non ha come obbiettivo, aldilà della bontà delle esecuzioni, la salvezza del proprio territorio.

7 Commenti a “La rivoluzione è un pranzo in casa”

  1. Danilo Monaro scrive:

    Grande articolo, Piero.

  2. Tonino Arcadu scrive:

    Articolo assolutamente condivisibile; fra le tante cose da sottolineare il concetto di cucina tradizionale come quella legata al territorio di appartenenza, alla stagionalità ed alla freschezza e qualità dei prodotti utilizzati.
    Il problema sorge quando si ricercano i prodotti, siccome per tutta una serie di motivi, sono difficilmente reperibili, i cuochi, piuttosto che stimolare, come dice Piero, gli agricoltori, o i produttori in genere, preferiscono correre al casc & carry; qui si ricade nell’altro grave problema: mancanza di autostima delle nostre potenzialità, che poi non è altro che mancanza d’IDENTITA’, in quanto persa. Se riuscissimo a recuperare un pò della nostra IDENTITA’, che non sia solo quella folcloristica, tanti problemi potrebbero essere risolvibili,

  3. Alessandro Dettori scrive:

    Complimenti, molto bello.

  4. Giovanni Cocco scrive:

    Condivido ogni parola. Il messaggio è potente ed ora dobbiamo amplificarlo

  5. Natalino Piras scrive:

    Grazie Piero, per questo tuo magistero sulla scienza dell’alimentazine e per quanto di bene hai detto del mio articolo. Non so cosa pensi di Piero Camporesi e delle sue lezioni sul “pane fuggente” nel lungo medioevo dei poveri, perseguitati da colui che in sardo chiamavano Mastru Juanne, la fame. Il tempo dell’abbondanza si è sovrapposto al cibo come assenza. Ha ribaltato i canoni del consumo, il pane “nero” che diventa “radical chic”, e ha omologato il gusto, sta qui il tremendo, alle leggi di mercato, alla “borsa del turismo”. Il gusto corrente rimuove la memoria della fame e alimenta, non sembri un paradosso, la voracità del capitale.

  6. Pina Sanna scrive:

    condivisibile sotto tutti gli aspetti, complimenti!

  7. Daniela Delogu scrive:

    Bel post. Fa bene al cuore leggerti. Non sarà un caso che mi sono fatta l’orto in terrazzo e quasi ogni giorno mangio le mie verdure? quello che c’è reinventato secondo il momento. E’ così che è nata la cucina delle famiglie ed è questo il motivo per cui ogni ricetta è diversa.
    Io sono sicuramente condizionata dal’esempio di mia nonna che faceva le seadas solo nei periodi in cui aveva fatto il formaggio. Teneva da parte una piccola forma che non metteva in salamoia e la lasciava inacidire e poi con quella faceva formaggelle e seadas. Gli altri giorni senza materia prima non si facevano e basta, preparava altro. Adesso il messaggio televisivo è :”puoi avere tutto tutti i giorni”. e perchè? grazie al cielo ci sono frutti che non si sono piegati a questa politica nefasta, soprattutto quelli autunnali. I cachi ci sono solo ora e così molti altri.
    Non sono rgida, può essere interessante e divertente mangiare a gennaio il pomodoro maturato al sole degli antipodi, ma non può essere una scelta quotidiana. Nefasta per la salute, per le tasche e soprattutto per la mente. E’ bello anche godersi i frutti invernali della terra (e ci sono!) aspettando quelli di altre stagioni.
    Vabbe’, la faccio finita qui, grazie Piero!!!

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