La via maestra, articolo 1

16 Dicembre 2013
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Gabriele Polo

Una Repubblica democratica fondata sul lavoro la cui sovranità appartiene al popolo; “democratica”, “lavoro”, “popolo”: gli ingredienti delle culture politiche antifasciste ci sono tutti, ma decisiva è la loro combinazione. Per l’Italia fu un mediazione tra la sinistra marxista e centrodestra cattolico-liberale, tra chi avrebbe voluto spostare verso il socialismo il baricentro della Costituzione esplicitando il concetto di “democrazia popolare” e chi intendeva arginare il vento del nord (e dell’est) ancorando la nascente Repubblica alla più occidentale definizione di “democratica”.
La mediazione fu trovata in quella parola così piena di significati tanto ambivalenti: “lavoro”. Un concetto di confine, come sul confine sorgeva la nuova Repubblica, divisa e quasi contesa tra i due mondi che nascevano dalla lunga guerra civile europea dei due conflitti mondiali intervellati dalla lunga strage della democrazia compiuta da fascismo e nazismo. Così l’Italia poteva essere democratica e popolare, un po’ socialista e un po’ liberale che si dovevano misurare in un conflitto politico (sintetizzato nel Parlamento e regolato dalle sue leggi) esplicito quanto dinamico. Con il lavoro al suo centro. Poteva succedere solo in quel momento e probabilmente solo in questo paese.
Perché allora andava bene a tutti, ai padroni come ai loro dipendenti, al capitale come alle organizzazioni dei lavoratori, perché quel termine ambivalente poteva contenere e promettere ogni cosa, contemporaneamente: dannazione e redenzione, condanna umana e riscatto sociale, riproduzione e arricchimento, servigio e liberazione.

Sarebbe stata la dinamica delle relazioni collettive e degli equilibri politici a far pendere la bilancia da una parte o dall’altra, con quel perenne conflitto tra interessi e valori contrastanti l’economia doveva misurarsi, da esso poteva persino trarre giovamento e sviluppo. Da quel muoversi dipendevano le condizioni i rapporti di forza e il potere dei protagonisti-antagonisti. Lì si costruivano il futuro del paese, i suoi equilibri e la sua rappresentanza politica. Questa, al fondo, è stato il punto d’origine della democrazia italiana, misurandosi attorno a un concetto che era al tempo stesso un valore e un problema, il lavoro. Comunemente condiviso come centralità.
Così per quasi quarant’anni, fino alla rivoluzione liberista che dagli anni ’80 ha progressivamente spostato il mondo sulla finanza facendone il baricentro di ogni cosa e, alla fine, il luogo da cui partono le decisioni, centro di potere che cancella ogni altra rappresentanza per far spazio solo alla propria. Fino alla modifica dell’articolo 81 della Costituzione, con il “pareggio di bilancio” che diventa il principio rifondativo di una Repubblica che non potendo cancellare il proprio atto costituente lo snatura, ripudiando il lavoro. Indebolito da quando la dinamica sociale si è interrotta, da quando è rimasto in campo un solo punto di vista e un solo interesse, facendola finita con l’antica ambivalenza, ormai “solo” dannazione, condanna, servigio. Ormai una semplice merce da vendere e comperare, la più globale delle merci; che per ritrovare voce e tornare a essere un valore costituente avrebbe bisogno di orizzonti altrettanto globali. Altrimenti può essere rimosso da un momento all’altro, anche da quello storico articolo 1 che pur tanto amiamo.

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