Lamette a Caracas e fiori a Orgosolo

11 Ottobre 2025

[Bastiana Madau]

Pedrito. Lamette a Caracas, fiori a Orgosolo, ultimo libro di Giacomo Mameli, uscito poche settimane fa per Il Maestrale, è tratto da una storia vera, a cui l’autore dà forma romanzesca.

Il protagonista, Pietro Demontis, nato a Perdasdefogu nel 1931, di professione sabateri, ciabattino, narra in prima persona il suo arrivo in Venezuela, nel 1958, accolto come un figlio dall’imprenditore siciliano Giuseppe Mormino, proprietario della calzoleria dove prima il giovane Perdu lavorava a Cagliari.

Mormino ha lasciato la Sardegna per stabilire la sua attività a Maracay, a cento chilometri da Caracas, capitale di un paese dove ci sono i pozzi di petrolio e la promessa di una facile ricchezza. Sono anni di boom economico in Venezuela ma pure tempi della spietata dittatura di Marcos Péréz Jiménz (presidente dal 1953 al 1958), che perseguita crudelmente l’opposizione al regime. I dissidenti sono torturati, condannati a morte senza processo, desaparecidos.

Lo stesso Pedrito viene arrestato poco dopo il suo arrivo in Venezuela e destinato a essere fucilato, ma le cose non andranno come previsto. Tramite la disavventura, Pedrito racconta la crudeltà della polizia al soldo del dittatore. Le «lamette a Caracas» del sottotitolo del romanzo evocano le sevizie a cui venivano sottoposti i dissidenti, che sono le stesse di cui abbiamo appreso nei libri di storia, in certa cinematografia, in tanti romanzi ambientati nei diversi paesi del Centro e Sud America, in cui, specialmente a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, si verificarono frequenti colpi di stato che portarono al potere capi militari e violente dittature.

Così, ad esempio, il taglio delle dita delle mani, di cui anche racconta Pedrito, ci conduce al ricordo del meraviglioso musicista cileno Víctor Jara, torturato in modo da impedirgli di continuare a suonare il suo strumento e poi ucciso. Il Cile ritorna nel romanzo di Mameli nel menzionare più volte la nota canzone degli Intillimani dedicata a Simon Bolivar, el Liberador, generale e rivoluzionario venezuelano che affrancò dal dominio spagnolo la fascia nord del Sudamerica.

Qui siamo appunto in Venezuela, circa vent’anni prima del colpo di Stato in Cile del 1973, anche se, come vedremo alla fine del libro, tutto si tiene sino al nostro presente. Alla fine del romanzo, Mameli traccia una storia delle dittature di quel Paese, di golpe in golpe, e lancia un appello per la libertà di Alberto Trentini, operatore umanitario di 46 anni arrestato appena giunto in Venezuela e incarcerato dal 15 novembre 2024 in totale isolamento.

Anche Lillino Demontis, fratello maggiore di Pietro/Pedrito, racconta un’esperienza di traumatica violenza, stavolta non nel Sud America delle dittature bensì in Sardegna, poiché subì la minaccia dei fucili dei banditi durante il sequestro a Orosei, il 5 novembre del 1953, di Davide Capra, l’ingegnere presso la cui ditta Lillino è assunto come operaio per i lavori della Statale Orientale Sarda. Il rapimento si conclude in tragedia. Durante un conflitto a fuoco tra forze dell’ordine e banditi muoiono Capra e il fuorilegge orgolese Emiliano Succu. In paese però gli orgolesi sussurrano «No est hosa nostra...». Ma cosa sia e di chi sia sa hosa nessuno lo dice: bocche cucite a Orgosolo, come – letteralmente, per tortura – a Caracas. Forse l’ingegnere dava fastidio per appalti non solo sardi (all’epoca si iniziava a costruire l’autostrada del Sole), chissà.

La vicenda si avvolse di mistero, e a Orgosolo, nel bosco della tragedia come sulle salme dell’ingegnere e del fuorilegge, si sparsero fiori. «Fiori a Orgosolo», come recita la seconda porzione del sottotitolo del romanzo. Peraltro, sono molto interessanti le pagine dedicate al paese, che evocano anche la famosa inchiesta sul banditismo di Franco Cagnetta pubblicata da Nuovi Argomenti nel ’54, quando la rivista era diretta da Alberto Moravia; inchiesta che divenne una traccia seguita da molti autori e artisti, approdati in quei territori creduti las Indias de aquì, e che condusse sino a Orgosolo Vittorio De Seta, che vi ambientò quel capolavoro della cinematografia europea intitolato Banditi a Orgosolo.

Insomma: di gente in gente – come dal suo esergo – viaggiano i fratelli Demontis, e di golpe in golpe, viaggia la Storia con la s maiuscola, e di violenza in violenza anche quella minuscola – sempre e comunque troppa. «Uccidono tanta gente in Barbargia», scrive Lillino. E Mameli a p. 67 fa i conti degli omicidi di quegli anni. «Nel 1952 sono 135 gli omicidi volontari in Sardegna […]. L’anno 1953 non è da meno: 129 omicidi volontari», ecc.  La violenza ha sempre e comunque una matrice profondamente legata a una società malata dove vige il diritto allo strapotere o a una “società del malessere”, per dirla con Peppino Fiori.

Così, Pedrito si presenta come un lungo racconto spinto dalla necessità di orientare nelle verità aderenti più a un mondo di valori che alla nuda cronaca. L’autore sente quel che scrive, e quel sentimento trasmette alla lettrice e al lettore. Anzi, quel duplice sentimento. A muovere la scrittura, infatti, sembra essere da un lato la consapevolezza del mondo com’è, della violenza e delle oppressioni che lo attraversano ovunque, nel microcosmo come “nel mondo grande e terribile”, per dirla con Antonio Gramsci.

Dall’altro c’è il racconto e l’immaginazione di come dovrebbe essere: più giusto, fraterno e amorevole. I punti di vista da cui origina questo sentire sono, all’apparenza, quasi antitetici. Politico-storico quello del primo – con il delinearsi della repressione originata dallo strapotere; e un punto di vista umanissimo il secondo, dove le scene paesane sono anche rappresentate tecnicamente, tanto da richiamare il saggio di cultura contadina di Max Leopold Wagner La vita rustica: il carro a buoi, il lavoro del fabbro, la minestra con merca, tanti oggetti, scene di vita quotidiana della società contadina. Wagner, peraltro, giustamente è uno uno studioso amato dall’autore, che gli dedica uno dei capitoli più belli del romanzo.

Come le altre opere di Mameli, dunque, Pedrito scaturisce dalla memoria storica e dal ricordo personale, ma sempre si infiamma nel presente. E come sempre tutta la furia della storia con la S maiuscola si placa in qualche modo in quelle pagine che portano a un universo piccolo ma pervasivo, che è l’universo dei valori che in fondo animano una vita semplice, serena perché mite, dove la consolazione è data dalla materialità dell’agire quotidiano: dal preparare una buona minestra a un’operosità imprenditoriale competente e onesta quale quella incarnata dal primo coltivatore di riso in Sardegna, a cui Mameli dedica pagine ammirate.

Ma soprattutto c’è Perdasdefogu, o meglio Foghesu, come in tutti i libri di Mameli; il paese amato consacrato a un universo letterario e poetico che travalica i confini dell’isola, portato da Pedrito nella sua valigia di cartone: luogo, anima, identità umana, che nel romanzo di Mameli sono rappresentati dalla straordinaria Festa de S’Istrangìa, sorgente dalla forza che può donare il vivere in una vera comunità, che dona radici che fanno superare la paura di accogliere chi arriva da lontano e, viceversa, di andare a conoscere nuovi orizzonti, e che donano forza e protezione.

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