L’archeologia per la Palestina e noi

5 Giugno 2025

[Alfonso Stiglitz]

«Il patrimonio e l’archeologia sono davvero una priorità in questo momento?» si chiedono Georgia Andreou e un anonimo studente universitario gazawi. A questa domanda cerco di iniziare a dare una risposta.

La recentissima pubblicazione di un appello da parte di 34 archeologi/ghe dell’Università di Bologna sulla drammatica situazione di Gaza dà finalmente la voce a un gruppo intellettuale spesso muto su temi che riguardano la società e l’etica archeologica. Silenzio impressionate davanti agli immani massacri e alla pulizia etnica nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Un silenzio consueto su quella regione da parte dell’archeologia italiana, spesso complice, salvo lodevoli eccezioni.

Per non parlare della Sardegna nella quale, in campo archeologico, vige l’allergia verso temi sociali e politici, salvo lodevoli eccezioni: ad esempio Valentina Porcheddu sul Manifesto e Sara Corona con Archeocosas. Facciamo tanti convegni, incontri, conferenze, feste su tutto lo scibile archeologico; mai uno su questo, neanche un accenno in un intervento in quegli autorevoli contesti.

Eppure, abbiamo fior di cattedre universitarie che si occupano di questi temi e di quelle regioni martoriate, con le quali abbiamo legami sin dall’età del Bronzo nuragica per, poi passare, ai Fenici e financo ai Giudicati, con il pellegrinaggio in ‘Terra Santa’ del giudice turritano Gonario. Ma sono cattedre mute (direi anche sorde e cieche). Neanche i recenti reiterati e consueti bombardamenti di Tiro e Sidone in Libano, da parte dell’aviazione israeliana, hanno provocato alcunché: eppure i Fenici di Cagliari, ancora nel 3° secolo prima della nostra era, si rivolgono a Tiro come madrepatria e lo lasciano scritto. Ma che ci importa, che si bombardi pure.

L’appello degli/delle archeologi/ghe bolognesi è un passo avanti che mi porta a fare alcune considerazioni che vogliono essere di stimolo. Manca qualcosa in quell’appello di Bologna, infatti: manca l’archeologia. La pulizia etnica ha come basi fattuali non solo il massacro fisico degli abitanti ma anche la cancellazione della memoria, della cultura e i siti archeologici ne sono il manifesto. Oggi a Gaza i luoghi della memoria sono sostanzialmente rasi al suolo. In Cisgiordania, invece, c’è l’appropriazione diretta, con la cancellazione di tutto ciò che non è ‘ebraico’ (qualunque cosa voglia dire): l’esaltazione del quadro biblico è funzionale verso la nuova conquista di Giudea e Samaria.

Gli esempi sono innumerevoli, mi limito a uno che in qualche modo lambisce, indirettamente, la Sardegna: è il caso del Monte Ebal. Il sito venne individuato e scavato illegalmente (ai sensi della convenzione dell’Aia), da Adam Zertal. Un militare che dopo il congedo diventa docente di archeologia, secondo uno schema normale in Israele nel quale l’archeologia è strumento funzionale dell’identità nazionale ebraica; era dichiaratamente un sionista che praticava l’archeologia come strumento per dimostrare la verità contenuta nella Bibbia.

A Monte Ebal ha individuato e scavato un sito ‘biblico’ nel quale sarebbe presente l’altare fatto realizzare da Giosuè in onore del Dio degli israeliti (Giosuè 8. 30-31). Va detto che l’identificazione dell’altare è stata contestata anche da archeologi israeliani. La sua identificazione porta automaticamente a individuare il Monte Ebal come luogo storicamente ebraico e come tale parte di Israele. Con conseguente occupazione, progressiva cacciata degli abitanti palestinesi e sottomissione dell’area all’autorità archeologica israeliana dei territori (illegalmente) occupati.

Di recente il sito è tornato alla ribalta per la ripresa delle ricerche (sempre illegali) da parte del predicatore cristiano evangelico e direttore dell’Archaeology Institute at The Bible Seminary (Katy, Texas) e di Gershon Galil dell’Università di Haifa che, immancabilmente, hanno fatto la scoperta del secolo, in funzione della conferma dell’ipotesi di Zertal (ormai buonanima). Riscavando le discariche dello scavo del primo archeologo (evidentemente uno scavo un po’ sbrigativo) viene scoperto un piccolissimo oggetto di piombo (2 x 2 cm) che rivela un’iscrizione; ma non una qualunque, un’iscrizione paleoebraica che manda indietro nel tempo la scrittura ebraica di qualche secolo, sino a non oltre il 1250 a.n.e., secondo gli scopritori.

E, secondo fatto, contiene la citazione di YHW, il dio delle tribù ebraiche. Ergo certifica il possesso di quelle terre da parte degli ‘Ebrei’ sin dal 2° millennio e, quindi, la legittimità dell’occupazione della Giudea e Samaria (ovvero la Cisgiordania) da parte dell’attuale Stato di Israele. La scoperta viene annunciata giornalisticamente con molta enfasi e solo più tardi viene edito l’articolo scientifico. Peccato che – come ormai ampiamente dimostrato da epigrafisti e specialisti delle lingue della regione – di quella iscrizione non ci sia traccia, è una pura ‘invenzione’; Raz Kletter, dell’Università di Helsinki l’ha definita sarcasticamente: «un’iscrizione postmoderna».

L’elemento ideologico ha preso il sopravvento. E, prima che vi entusiasmate, il piombo della (presunta) iscrizione non è sardo, ma viene dalle miniere del Laurion in Grecia. Un legame con la Sardegna, però, c’è: lo scopritore del sito, Adam Zertal, è noto da noi per un altro scavo condotto in collaborazione con l’Università di Cagliari nel sito di el-Ahwat, identificato come la fortezza dell’eroe mitico Sisara, generale dei cananei che secondo Zertal era a capo dei “sardi” Shardana, valorosi guerrieri che, però, anche in questo caso vengono sconfitti, da chi? Dagli Isreliti ovviamente.

Le mie riflessioni – che prendono lo spunto dall’importante appello degli archeologi e delle archeologhe bolognesi – vogliono stimolare una presa di posizione che superi la fase umanitaristica, importante, per diventare qualcosa di più sostanziale e, aggiungerei, per non dimenticare la Cisgiordania, parte integrante della Palestina, soggetta ad un altrettanto violenta pulizia etnica.

Che senso ha parlare di archeologia in Palestina davanti alla mattanza, alla deportazione, alla espulsione delle comunità? Alla domanda hanno cercato di dare risposta Georgia Andreou, dell’Università di Southampton e da un anonimo studente della Islamic University of Gaza: «Il patrimonio e l’archeologia sono davvero una priorità in questo momento? Se sì, per chi stiamo preservando il patrimonio? Per il nostro patrimonio accademico che capitalizza sull’ennesima crisi? O per le comunità locali che sono state uccise all’interno e nelle vicinanze di questi siti storici, molti dei quali ora sono utilizzati come luoghi di rifugio?» e continuano «L’archeologia ha una lunga tradizione nel separare il patrimonio storico dal suo contesto contemporaneo».

Giusto per non sbagliare le Università di Gaza sono state rase al suolo e molti degli studenti, anche archeologi, sono stati assassinati. Un modo pratico ed efficace per separare il patrimonio dalla sua comunità. Questo ci porta a prendere atto che l’archeologia è un fatto politico, qui e ora e ovunque, e che chi opera come archeologo/a vive ed è partecipe o complice di questa realtà. Il silenzio, l’indifferenza sono una scelta di campo.

PS. L’appello di Bologna, oltre che in inglese, l’avrei scritto almeno anche in italiano [e magari anche in ebraico e arabo], per superare la fastidiosa sensazione della torre d’avorio.

Per una lettura consapevole:

Il testo di Giorgia Andreou e dell’anonimo studente di Gaza: https://www.americananthropologist.org/online-content/what-is-heritage-without-people

Il testo dell’appello degli archeologi di Bologna: https://docs.google.com/document/d/1CVQMq3LEtZORRx66YNQyise-vhuDc1l399tx8dkEE2w/edit?usp=sharing&fbclid=IwY2xjawKros5leHRuA2FlbQIxMQBicmlkETFYdEJqRnVpZlBFYVRQRnk2AR7twOgMBCDPYs5TnHrUBcwnNXmv5HRaicFoHEhU1lKDdAI8QrICnUmW0fkjMg_aem_J1mPXzlQTWfkn9VendqrYQ

Sul monte Ebal va consultata la pagina: https://emekshaveh.org/en/

È utile la voce di Wikipedia dalla quale si possono scaricare e leggere molti dei testi relativi al ritrovamento e alle critiche: https://en.wikipedia.org/wiki/Mount_Ebal_lead_object

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