Le nozze d’oro tra Bayer e Monsanto

16 Ottobre 2016
Foto Francesca Corona

Foto Francesca Corona

Cristina Ibba

Per soli sessantasei miliardi la statunitense Monsanto è stata venduta alla tedesca Bayer: un colosso dell’industria farmaceutica si fonde con un colosso dell’industria sementifera ogm e dei pesticidi.

Questo è solo un tassello importante di un vertiginoso processo di fusione e acquisizione in atto nell’industria sementifera-agrochimica e in altri settori strategici del business della catena agroalimentare. Ci sono movimenti anche tra le imprese di fertilizzanti, tra quelle che producono macchinari e tra quelle che possiedono banche dati che influiscono nei processi agricoli.

Dopo questa fusione saranno solo tre i soggetti che si spartiranno il mercato agroalimentare da cui dipendono le vite dell’intera popolazione mondiale: Dupont-DowChemical, Syngenta-ChemChina e Bayer-Monsanto. Sembra una strana mescolanza, ma non lo è; per adattarsi ai bisogni dell’agroindustria le sementi appartengono sempre più alla chimica che alla natura.

La preoccupazione è forte perché queste grandi manovre condotte dalle multinazionali dell’agrochimica hanno portato alla concentrazione, in pochissimi anni, di un controllo sia sulla produzione di cibo che su quello dei farmaci, elementi essenziali per la salute delle popolazioni.

E’ chiaro che questa situazione nasce da lontano, quando, negli anni novanta, il capitalismo planetario con l’organizzazione mondiale del commercio, WTO, apre le porte ufficialmente alla globalizzazione. Un sistema che non contempla più i mercati nazionali, ma un unico mercato mondiale in cui si fronteggiano colossi planetari.

La decisione di Bayer di comprare Monsanto è la conseguenza di una guerra in atto fra giganti della chimica agroindustriale per la conquista del mercato mondiale di sementi e pesticidi. Capito che i due settori sono fortemente connessi tra loro, la strategia che tutti perseguono è quella di trasformarsi in imprese contemporaneamente presenti sia in un settore che in un altro.

Ma quali sono e saranno le ricadute sui contadini, le famiglie agricole, ma anche sui consumatori, ovvero su tutta la popolazione mondiale?

Che differenza c’è se le imprese sono tre, sei, o cento?

Per milioni e milioni di anni le piante hanno generato semi fecondi che hanno dato vita a nuove piante e a nuovi semi. Poi negli anni sessanta del secolo scorso, con la così detta rivoluzione verde, le imprese hanno incominciato a sostenere che alcune di queste essenziali fonti di vita avevano dei padroni, che non erano i contadini, quelli che avevano sempre protetto e custodito i semi per generazioni, quei semi che si sono adattati alle migliaia di microclimi, situazioni geografiche, esigenze e gusti locali.

Negli ultimi tre decenni, le vecchie e potentissime multinazionali dell’industria chimica, con più di un secolo di vita, si sono messe a comprare in tutto il mondo le aziende semenzifere, che fino a quel momento erano migliaia ed erano molto decentralizzate. Lo hanno fatto per creare un mercato oligopolistico che obbliga gli agricoltori a comprare le loro sementi insieme ai loro agrotossici (li chiamano agrochimici perché sembrino meno dannosi). Il risultato evidente di tale politica di vendita abbinata sono state le sementi transgeniche (diffusissime negli Usa, Argentina, Brasile e India) manipolate per tollerare alte dosi di veleni delle stesse multinazionali.

Quindi il boccone è parecchio ghiotto e l’obiettivo è quello di estendere il controllo sugli agricoltori integrando in un unico blocco le sementi, i pesticidi, i fertilizzanti, i macchinari, i servizi sui dati climatici, fino alle polizze assicurative nell’agricoltura. Tutto questo significherebbe livelli senza precedenti di controllo dell’agricoltura mondiale da parte di poche società.

Questi giganti da anni si muovono per aumentare il loro potere anche nelle istituzioni, per plasmare a loro vantaggio gli accordi sul commercio in agricoltura, le sovvenzioni e i programmi rurali, le leggi sul lavoro, sementi e brevetti, i regolamenti sull’uso del suolo, sull’uso dei pesticidi e anche gli investimenti pubblici per le infrastrutture: tutto a vantaggio dei loro affari.

Sentiamo tante belle parole da parte dei governanti nazionali e regionali, sul fatto che l’Italia o la Sardegna possono “vincere” solo puntando sulla qualità, sulla tipicità e sulla valorizzazione delle proprie colture uniche. Si fa finta di dimenticare che dal 1998 una direttiva comunitaria regola la commercializzazione e lo scambio di sementi, stabilendo che debbano essere riservati esclusivamente alle compagnie semenziere e non agli agricoltori. Nel luglio 2012 la corte di giustizia europea ha rimarcato la questione con una sentenza nella quale si impone il divieto assoluto di commercializzare le sementi delle varietà tradizionali e diversificate che non siano iscritte nel catalogo ufficiale europeo.

Queste concentrazioni oligopolistiche hanno anche delle dimensioni sconosciute. Il controllo più ambito è quello sulle informazioni e quindi sui droni, gps e altri sofisticati giochini. Poi c’è il controllo sui prodotti, sui suoli, sull’acqua, sulla vegetazione, i boschi, le comunità animali e umane che li abitano. Insomma la posta in gioco, il grosso affare ruota intorno alla produzione di cibo che dovrà sfamare, entro qualche decennio, circa nove miliardi di persone.

La nostra potrebbe sembra la guerra di Davide contro Golia, nella quale non possiamo che arrenderci, omologarci e perdere, oltre alla salute, tutto quel patrimonio di biodiversità che ci caratterizza anche come regione.

Direi proprio di no perché, malgrado l’enormità delle minacce, tuttavia continuano a essere i più piccoli, le contadine e i contadini, gli indigeni, i pescatori artigianali, la caccia e la raccolta artigianale, gli orti urbani, a fornire cibo a più del 70% dell’umanità. E poi ci siamo noi consumatori, sempre più consapevoli del diritto alla sovranità alimentare, che possiamo fare la differenza. Non stiamo a guardare.

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