Lettera dal Chiapas: un messaggio per capire lo zapatismo

1 Marzo 2016
LaRealidad05
Subcomandante Insurgente Galeano [*]

Per Juan Villoro Ruiz [*]:

Sono lieto che il resto della famiglia stia bene, e siamo contenti che tu sia il messaggero che fa giungere loro i nostri saluti ed ossequi (anche se sono convinto che cravatte e posacenere o un mazzo di fiori sarebbero stati un’opzione migliore).

Mentre cercavo di proseguire questa lettera, mi è tornato in mente il tuo testo “Conferencia sobre la lluvia”, scritto, credo, per il teatro, e che ho letto immaginando, di sicuro malamente, la scenografia, i gesti e i movimenti dell’interprete del monologo, sentendo quel che mi interpellava più che accusandone ricevuta. L’inizio, per esempio, è una sintesi della mia vita: il laconico “Ho perso le carte!” della prima riga, vale un’enciclopedia se lo lego ai calendari e geografie del continuo cadere e ricadere che è la mia vita.

Perché, invariabilmente, dopo il saluto di apertura, in una lettera, mi sfuggono le idee (“la tonelada” dicono i compas, i compagni, per parlare del tono di una canzone). Voglio dire, l’obiettivo concreto della lettera. Vero che l’aver chiaro chi sia il ricevente potrebbe aiutare, ma non poche volte il destinatario è un ascolto fraterno al quale non si richiede necessariamente una risposta, ma sempre un pensiero, un dubbio, un interrogativo, ma non che paralizzi, bensì che provochi altri pensieri, dubbi, domande, eccetera.

Allora, magari come il bibliotecario-conferenziere protagonista dell’opera, vengono fuori parole che non si sono cercate di proposito, ma che erano lì, nascoste, in attesa di una disattenzione, una crepa nel quotidiano, per dare l’assalto alla carta, allo schermo o a quel foglio sgualcito che dove-diavolo-l’ho-messo-ah-eccolo-qua!-ma-quando-ho-scritto-questa-idiozia? Le parole allora smettono di essere scudo e barricata, lancia e spada, e diventano, molto nostro malgrado, uno specchio di fronte al quale ci si rivela e ci si svela.

Certo, il bibliotecario può ricorrere alle sue pareti colme di scaffali, con il loro ordine alfabetico e numerico, con calendari e geografie che disegnano una mappa di tesori letterari; cercare quindi alla “o” di “oblio” e vedere se lì trova quello che ha perso. Ma qui, in questo continuo trasloco, l’idea di una biblioteca, per quanto minima e portatile, è una chimera. Non credere, ho accolto con vane speranze i libri elettronici (dentro una Usb o “pendrive” o “memoria esterna” – vi si potrebbe caricare se non la biblioteca di Borges, almeno una rassegna minima: Cervantes, Neruda, Tomás Segovia, Le Carré, Conan Doyle, Miguel Hernández, Shakespeare, Rulfo, Joyce, Malú Huacuja, Eduardo Galeano, Alcira Élida Soust Scaffo ([*]), Alighieri, Eluard, León-Portilla e il mago della parola: García Lorca, tra gli altri). Ma niente se il bibliotecario perde le carte, ed io i dispositivi usb, e va a sapere dove vanno a finire.

Ma non credere, ognuno ha le sue vergognose fantasie. Nelle usb dei libri elettronici normalmente mettevo una miscellanea di autori, pensando che se li avessi persi sarebbero stati insieme e, forse, non so, dopo tutto la letteratura è il genere dell’impossibile che si concretizza in lettere, quindi avrebbero potuto “condividersi” tra loro.

“La letteratura è un luogo in cui piove”, hai fatto dire al conferenziere in disgrazia, obbligato a denudarsi, senza l’abito dei suoi appunti, per mostrarsi come è: vulnerabile.

Allora immagina una usb con questi o altri artisti della parola. Immagina che inizi a piovere. Immagina quello di cui parlano tra loro mentre cercano di fare in modo che una goccia d’acqua non rovini il codice binario nel quale vivono e allora comincerebbero gli equivoci: 0-1-0-macchia-1-cancellazione-0-0-cancellazione-1 o quello che è, e così parte il “come osa, lei!” e da una parte all’altra volano i “¡cómo se atreve usted!” e volano da un a parte all’altra i “fuck you”, “que te doy una hostia”, “son pavadas”, “a la chingada”, “vous êtes fou”, “vaffanculo”, mentre Alcira diffonde la sua “Poesia en armas” ciclostilata, cosa che non credo riappacificherebbe gli animi belligeranti. Insomma, tutte le promettenti aspettative rovinate… dalla pioggia.

Indubbiamente, mutatis mutandis, nelle tue lettere è un gatto l’esiguo auditorium del conferenziere, e qua è un gatto-cane con la sua lucina che ugualmente resta sconcertato da quello che scrivo, come se non fossero di per sé sconcertanti un gatto-che-è-cane-che-è-gatto-che-è-cane e una luce accucciata nell’ombra.

Sto divagando? Questo è sicuro. Dopo tutto, questa condivisione impossibile dentro una usb che spera che la pioggia non rovini il colloquio, non è altro che una fantasia. Ma se per il conferenziere il tema è la pioggia, per questa missiva il tema è… la tormenta.

Consentimi dunque di approfittare di queste righe per proseguire il nostro scambio di riflessioni sulla complessa crisi che si avvicina, secondo alcuni, o che già c’è, secondo altri.

Qualcuno da quelle parti ha detto che la nostra visione (plasmata ora nella stampa del libro “Il Pensiero Critico di fronte all’Idra Capitalista. Partecipazione della Commissione Sexta dell’EZLN”), è apocalittica e più vicina a Robert Kirkman e al suo “The Walking Dead” (il fumetto e la serie televisiva ispirata, o no, a lui), che a Milton e Rose Friedman e al loro “Liberi di Scegliere” (il libro, e le politiche economiche che trovano lì il loro alibi). Che ci sbagliamo perché non siamo ortodossi, o che ci sbagliamo perché siamo troppo ortodossi. Che non succederà niente, che svegliandoci ogni mattina ci sarà sempre il necessario per la colazione, che il cane del vicino continuerà ad abbaiare al camion della spazzatura, che dal rubinetto del bagno continuerà ad uscire acqua e non un rumore d’oltretomba. Che siamo solo uccellacci del malaugurio e che, in aggiunta, non abbiamo alcun peso mediatico o accademico (anche se sempre più spesso sono la stessa cosa).

Infine, che la macchina funziona e ognuno sta dove deve stare. Gli scossoni sono sporadici e sono solo questo, scossoni, e che le turbolenze sono passeggere e dovute a qualcuno che si rifiuta di stare dove deve stare. Come si smonta un orologio se un ingranaggio o una molla escono dal loro posto, e lo Stato è “l’orologiaio” che elimina il pezzo rotto e lo sostituisce con un altro.

L’Apocalisse (tutto incluso)? Il diluvio universale? L’umanità prigioniera nel treno apparentemente eterno e immortale di Snowpiercer (il film del sudcoreano Bong Joon-ho, intitolato “Rompighiaccio” nel dvd di “produzione alternativa” che mi è arrivato – e che adesso non trovo) che riproduce dentro se stesso la stessa disumanità che, volendo risolvere il riscaldamento globale, ha indotto il raffreddamento del pianeta?

Niente di più lontano dal nostro pensiero. Noi, zapatisti, zapatiste, non crediamo che il mondo finirà. Ma pensiamo che quello che conosciamo attualmente collasserà, e che la sua implosione provocherà una miriade di disgrazie umane e naturali.

Se questa implosione sia già in marcia o si stia preparando, sulla sua durata e termine si può dibattere, argomentare, discutere, affermare o negare. Ma per quanto ne sappiamo, non c’è chi osi negarla. Lassù tutti ammettono che la macchina sta cedendo e provano una soluzione dietro l’altra sempre all’interno della logica della macchina. Ma c’è chi vuole rompere con questa logica ed afferma: l’umanità è possibile senza la macchina.

Tuttavia, dato quel che siamo, non ci preoccupa tanto la tormenta. Dopo tutto, ci sono stati secoli di tormenta per i popoli originari e i diseredati del Messico e del mondo, e se c’è una cosa che si impara, in basso, è vivere in condizioni avverse. La vita allora, e in qualche caso la morte, è una lotta continua, una battaglia scatenata in tutti gli angoli dei calendari e delle geografie. E non parlo qui delle battaglie mondiali, ma di quelle personali.

Come si può evincere da una lettura attenta della nostra parola, il nostro è un messaggio che va oltre la tormenta e le sue sofferenze.

È nostra convinzione che la possibilità di un mondo migliore (non perfetto né finito, lasciamo questo ai dogmi religiosi e politici) sta al di fuori della macchina, e la sua possibilità si regge su un treppiede. O meglio, nell’interrelazione tra tre sostegni che hanno resistito e perseverato, con i loro alti e bassi, le loro piccole vittorie e le loro grandi sconfitte, durante la breve storia del mondo: le arti (eccettuata la letteratura), le scienze ed i popoli originari e i bassifondi dell’umanità.

Forse ti chiedi, un po’ per curiosità e molto per la domanda diretta che ti suscita, perché metto in un luogo a parte la letteratura. Permettimi di spiegarlo più avanti.

Noterai che, abbandonando i classici, non ho citato la politica tra le vie di salvezza. Conoscendoci un po’ (anche se non compariamo nemmeno nelle pagine interne dei media, c’è un’abbondante bibliografia dedicata a chi nutre un onesto interesse nel conoscere lo zapatismo), è chiaro che ci riferiamo alla politica classica, alla politica “di sopra”.

Juan, fratello, so che per questo ci vorrebbe non un’altra lettera, ma una biblioteca, quindi permettimi di lasciare questo punto in sospeso. Non perché sia meno importante o trascendente nella tormenta, bensì perché “ho preso la strada”, come dicono i compas, e se seguo le biforcazioni verso le quali mi spinge la parola, e corri il rischio che questa lettera non ti arrivi mai, non per la pioggia, ma perché incompiuta.

Ho citato “le arti” perché sono esse (e non la politica) che scavano più a fondo nell’essere umano e riscattano la sua essenza. Come se il mondo continuasse ad essere lo stesso, ma con esse e attraverso di esse riuscissimo a trovare la possibilità umana tra tanti ingranaggi, dadi e molle che stridono rumorosamente. A differenza della politica, l’arte dunque non cerca di riparare o sistemare la macchina. Fa qualcosa di più sovversivo e inquietante: mostra la possibilità di un altro mondo.

Ho citato “le scienze” (e mi riferisco qui in particolare alle cosiddette “scienze formali” e alle “scienze naturali”, considerando che quelle sociali devono ancora definire alcune cose – attenzione: senza che questo implichi una domanda e un bisogno) perché hanno la possibilità di ricostruire sulla catastrofe che già “opera” in tutto il territorio mondiale. E non parlo di “ricostruire” nel senso di riprendere quel che è crollato e rifarlo di nuovo ad immagine e somiglianza della versione precedente della catastrofe. Parlo di “rifare”, cioè, “fare di nuovo”. E le conoscenze scientifiche possono riorientare la disperazione e darle il suo senso reale, cioè, “smettere di sperare”. E chi smette di sperare potrebbe cominciare ad agire.

La politica, l’economia e la religione dividono, parcellizzano. Le scienze e le arti uniscono, affratellano, trasformano le frontiere in ridicoli segni geografici. Certamente, né le une né le altre sono esenti dalla feroce divisione in classi e devono scegliere: o contribuire al mantenimento e riproduzione della macchina, o contribuire a mostrare la sua necessaria soppressione.

Invece di ri-etichettare la macchina, abbellendola o perfezionandola, l’arte e la scienza potrebbero issare, sulla superficie cromata del sistema, un’insegna laconica e definitiva: “CADUCO”, “Scaduto”, “per continuare a vivere, depositare un altro mondo”.

Immagina (alla tua generazione deve essere rimasto qualcosa di John Lennon, alla mia poco più che sones e huapangos [musiche e balli folk messicani, Ndt), immagina se tutto quello che si spende in politica (per esempio per le elezioni e votazioni a favore della guerra, così antidemocratiche sia le une che le altre – “la politica e l’economia sono la continuazione della guerra con altri mezzi”, avrebbe detto Clausewitz se fosse partito dalla scienza sociale), fosse dedicato alle scienze e alle arti. Se invece di campagne elettorali e militari ci fossero laboratori, centri di ricerca e divulgazione scientifica, concerti, esposizioni, festival, librerie, biblioteche, teatri, cinema, e campi e strade dove regnino le scienze e le arti, e non le macchine.

Certo, noi, zapatisti e zapatiste, siamo convinti che questo è possibile solo al di fuori della macchina. E che bisogna distruggerla. Non ripararla, non abbellirla, non renderla “più umana”. No, distruggerla. Se qualcosa dei suoi resti serve, che sia come dimostrazione del fatto che non si deve riprodurre l’incubo. O solo come un riferimento al quale si guarda dallo specchietto retrovisore mentre ci si lascia dietro la strada.

Ma non dubitiamo che ci sia qualcuno che pensi o creda che tutto questo sia possibile dentro la macchina, senza alterare il suo funzionamento, cambiando macchinista o redistribuendo la ricchezza dai vagoni più lussuosi (non troppa, non bisogna esagerare) ai vagoni di coda. Ovvio, sempre sottolineando che ognuno sta dove deve stare. Ma il candore, fratello, normalmente è uno degli abiti della perversione.

Ho menzionato i popoli originari e i bassifondi del mondo perché sono quelli che hanno più opportunità di sopravvivere alla tormenta e i soli con la capacità di creare “un’altra cosa”. Qualcuno domani dovrà rispondere alla domanda “C’è qualcuno sulla Terra?”. E qui la parola presenta, non senza civetteria provocatoria, un’altra biforcazione che, per il bene di questa missiva, evito con la mia nota modestia.

Prima ho citato, beffardo e provocatorio, le arti, ma escludendo la letteratura. Bene, l’ho fatto perché credo (e questo è personale) che toccherebbe alla letteratura creare i legami tra quei tre piedi e rendere conto del processo, fortunato o no, della loro interrelazione. Alla letteratura tocca essere “Il Testimone” (titolo di un romanzo di Villoro, Ndt). Ma sicuramente mi sto sbagliando, oppure in questo gioco di carte ho pescato il jolly, in modo da chiedere “Perché così seri?”.

[*]

Che cosa vogliamo? La chiave per capire il messaggio sotterraneo dello zapatismo sta nei piccoli racconti che, sulla bambina indigena che si autodefinisce “Difesa Zapatista”, appaiono nel libro “Il Pensiero Critico di fronte all’Idra Capitalista”.

Immaginare quello che, pur necessario e urgente, sembra impossibile: una donna che cresca senza paura.

Indubbiamente ogni geografia e calendario aggiunge le sue catene: indigena, migrante, lavoratrice, orfana, profuga, illegale, desaparecida, violentata sottilmente o esplicitamente, violata, assassinata, condannata sempre ad aggiungere pesi e condanne alla sua condizione di donna.

Che mondo sarebbe quello partorito da una donna che potesse nascere e crescere senza la paura della violenza, della minaccia, della persecuzione, del disprezzo, dello sfruttamento?

Non sarebbe terribile e meraviglioso quel mondo?

Quindi, se chiedessero a me, ombra spettrale dal naso impertinente, di definire l’obiettivo dello zapatismo, direi: “Fare un mondo in cui la donna nasca e cresca senza paura”.

Attenzione: non sto dicendo che in quel mondo non ci sarebbero più violenze a minacciarla (soprattutto perché il pianeta si può distruggere molte volte, ma non il peggio della nostra condizione di maschi).

Non sto nemmeno dicendo che già non ci siano donne senza paura. Che con il loro impegno ribelle hanno ottenuto vittorie nella battaglia quotidiana, e che sanno vincere le battaglie. Ma non vincono la guerra. No, fino a che ogni donna in ogni angolo delle geografie e calendari mondiali non possa crescere senza paura.

Parlo della tendenza. Potremmo affermare che la maggioranza delle donne nascono e crescono senza paura? Credo di no, e probabilmente mi sbaglio e sicuramente arriveranno numeri, statistiche e dimostrazioni che mi sbaglio.

Ma nel nostro limitato orizzonte percepiamo la paura, paura perché piccola, paura perché grande, paura perché magra, paura perché grassa, paura perché bella, paura perché brutta, paura perché incinta, paura perché non incinta, paura perché bambina, paura perché giovane, paura perché matura, paura perché anziana.

Vale la pena impegnare il passo, la vita e la morte per tale chimera?

Noi, zapatisti, zapatiste, diciamo di sì, vale la pena.

E ci mettiamo la vita che, benché sia poca cosa, è tutto quello che abbiamo.

[*]

Sì, hai ragione, non mancherà chi ci taccerà di “ingenui” (nel migliore dei casi, perché in tutte le lingue ci sono sinonimi più crudi). (Questo word processor, un software libero e con codice aperto, mi piace perché ogni volta che voglio scrivere “caso” o “casi”, il correttore mi propone “caos”. Credo che il software libero ne sappia più di me di devastanti tormente).

Dove eravamo rimasti? Ah! Le parole perse, il loro naufragio in fogli o bites, i popoli originari e i bassifondi dell’umanità trasformati in arca di Noè, le scienze e le arti come isole salvatrici, una bambina senza paura come bussola e porto…

Cosa? Sì, concordo con te che il risultato di tutto questo sa più di caos che di caso, ma questa è solo una lettera che, come dovrebbe essere per tutte le lettere, si trasforma in un aereoplanino di carta con la minacciosa scritta “Forza Aerea Zapatista” disegnata di lato, e che cerca il suo destinatario. Perché chissà dove sei Juan, fratello. Come dicevano un tempo le nonne (non so adesso), “fermati ragazzino”, e mettiti la giacca o lasciati dare un abbraccio perché fa freddo e “la questione, lo sai, è la pioggia”.

Dalle montagne del Sudest Messicano.
Subcomandante Insurgente Galeano [*]
Messico, febbraio 2016

Note

Traduzione a cura dell’Associazione Ya Basta! Milano

[*] Juan Villoro Ruiz è uno scrittore e giornalista messicano

[*] Alcira Élida Soust Scaffo è una poetessa uruguayana emigrata illegalmente in Messico alal fine degli anni sessanta, divenuta famosa perché quando nel ’68 l’esercito occupò la Unam, la più grande università del Messico, lei rimase nascosta in un bagno per molti giorni. La storia è alla base di “Amuleto”, breve romanzo di Roberto Bolaño, che conobbe Alcira a Città del Messico.

[*] Galeano è il nome che ha deciso di darsi quello che era conosciuto come Marcos. Galeano è il nome di un maestro di scuola zapatista assassinato dai paramilitari.

Il giorno succesivo alla diffusione di questo testo, l’Esercito zaparista di liberazione nazionale ha reso noto il calendario di una serie di attività (incontri, rassegne) del 2016, tra cui un festival delle arti. I dettagli (in italiano) sono qui.

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