Limbas

1 Giugno 2011


Alfonso Stiglitz

Nel 1901 un’operaia della Manifattura Tabacchi viene sospesa per aver pronunciato una frase in campidanese; un secolo più tardi, alcuni giorni fa, nel tribunale di Oristano un teste ha reclamato il diritto di poter rendere la propria testimonianza in sardo (L’Unione Sarda del 21.05.2011). Il Presidente della Corte ha ritenuto lecito il fatto, convocando un interprete. Avete capito bene, un interprete; è evidente che il potere costituito ritiene che la lingua sarda sia in Sardegna lingua straniera. È stato necessario quasi un secolo perché l’uso del sardo fosse ritenuto ammissibile nelle aule giudiziarie allo stesso modo in cui nei tribunali d’Italia si ammette ormai l’arabo, il senegalese, il cinese, alla stessa stregua, cioè, delle migliaia di migranti che ormai fanno parte di noi, del nostro corpo sociale, anche se non ben assimilati. Tali siamo ancora concepiti in quanto sardi. La decisione del Tribunale ci fa sentire immersi in quello straordinario movimento di intelligenze che a dispetto di tutte le xenofobie e razzismi ci arricchiscono; noi sardi siamo figli di migranti, di quegli errabondi che nei vari millenni sono sbarcati nelle nostre coste. Ma dall’altra parte ci fa toccare con mano quanto ancora vecchia sia la considerazione che lo Stato ha di noi, stranieri nella nostra terra, impossibilitati a usare una delle nostre lingue, per non parlare del nostro territorio, come mostra il caso vergognoso delle basi militari.
C’è di più, il giudice ha ammesso la testimonianza in sardo, con l’interprete, ma non il declinare delle proprie generalità, imponendo l’itakiano, il che ci pone in qualche modo al di sotto del migrante normale. Nei due estremi delle notizie giornalistiche divise da un secolo è compresa la volontà del potere, economico, allora e statale oggi, di accettare i concetti base della democrazia linguistica, arrogando a se stesso l’autorità di imporre i codici linguistici che, ovviamente, sono solo ed esclusivamente i propri.
In altre parole il sardo è visto come lingua della narrazione, del racconto, veritiero o fantasioso, anche nel caso di una deposizione giurata, ma non dell’ufficialità, dello stabilire chi siamo, qui e ora, quale identità formale, di cittadinanza, abbiamo. Siamo cittadini solo in italiano.
In questo piccolo fatto di banale quotidianità sta, a mio parere, la situazione attuale della lingua sarda, riconosciuta per legge e allo stesso tempo negata, sempre per legge.
Paradossalmente è una situazione che si rispecchia nell’accesissimo dibattito tra i sostenitori della necessità di una politica che restituisca alla lingua sarda un ruolo ufficiale. È quanto successo con la formalizzazione di una lingua amministrativa (Lingua Sarda Comuna), voluta dalla Regione come veicolo di un codice linguistico in grado di essere normativamente efficace; detto più semplicemente, la necessità di una ligua utilizzabile negli ambiti amministrativi quali la stesura di leggi, di delibere, di ordinanze, di documenti nei quali è indispensabile l’utilizzo di un linguaggio univoco.
Questo semplice fatto, che prescinde dal mero aspetto museografico della conservazione di una lingua ritenuta in estinzione, ha provocato un sanguinosissimo confronto, nel quale a predominare sono stati più i toni che non i contenuti. La lingua unificata vista come imposizione nei confronti del linguaggio familiare, degli affetti, della poesia, della narrazione; un codice burocratico e freddo, imposto dall’alto. In sostanza la lingua vista solo come veicolo di narrazione e di emozione, ma non necessaria né utile negli aspetti normativi, ritenuti estranei. La posizione le presidente della Corte del Tribunale di Oristano ha espresso nel modo più chiaro questa dicotomia, il testimone può raccontare quello che ha visto, ma non può attestare le proprie generalità. Può essere parte del popolo, ma non cittadino.
Se non si supera velocemente questa dicotomia il sardo sarà destinato a restare una lingua del cuore, senza alcuna prospettiva di vita, una lingua mummificata, sebbene nobilitata dalla poesia.
Ma serve il sardo, al di là del suo uso folkloristico residuale? Serve in quanto lingua madre, lingua che si apprende alla nascita e che definisce una delle nostre posizioni geografiche nel vasto mondo. E d’altra parte, oggi, abbiamo la fortuna di avere, dalla nascita due lingue madri, sardo (o catalano, tabarchino ecc.) e italiano, e favorire l’uso pieno di entrambe rappresenta un enorme vantaggio rispetto ai monolingui.
In giorni di una nuova ventata di sinistra nelle nostre città, non sarà male rammentare sommessamente la necessità di una cultura che sia attenta alle diversità e che ponga la democrazia linguistica tra gli elementi del proprio programma di governo.
Per fare un esempio a caso, in una città come Cagliari, soprattutto nei quartieri popolari, il sardo è ancora un importante veicolo di comunicazione e può diventare, con l’italiano (e ovviamente tutte le altre lingue del mondo), il crocevia di una nostra presenza nel Medditerraneo, come cittadini. E visto che ho iniziato l’articolo con il caso delle giovani operaie, che usavano il sardo come prima lingua e per questo vennero punite, si potrebbe suggerire al neosindaco di Cagliari, nel ricordo delle dure lotte contro lo sfruttamento di quelle giovani lavoratrici, di fare un bell’uso della Manifattura Tabacchi, un edificio della città con una naturale destinazione al luogo di “tutte le lingue del mondo”. Un laboratorio di democrazia linguistica, è il mio augurio di buon lavoro.

P.S. La notizia sulle operaie della Manifattura Tabacchi l’ho tratta dal volume: M. Brigaglia, L’età giolittiana, la Grande Guerra, il fascismo e la Repubblica (1900-1948), in La Sardegna, tutta la Storia in mille domande, La Nuova Sardegna, 2011.

3 Commenti a “Limbas”

  1. Giacomo Oggiano scrive:

    Nel 1960 una supplente mi sorprese a recitare una poesia in (vernacolo, lingua, … se la vedano i linguisti) sassarese. Ricordo ancora; era una poesia di Giacomo Zanella che la nostra maestra ci fece tradurre dall’italiano ed imparare a memoria. L’arcigna supplente mi obbligò ad alzarmi in piedi, chiedere scusa e, quindi, mi apostrofò con una bordata di vergognati! La classe fu solidale: – ma signora maè ce l’ha fatta imparare la nostra vera mestra – Fummo costretti ad imparare e cantare un coro alpino e l’inno cunservet deu su re. Non capivamo un accidente nè dell’uno nè dell’altro, ma la supplente era soddisfatta. Non so da dove provenisse, sicuramente era sarda e riconosceva – in questo caso – al logudorese un ruolo istituzionale. Ruolo che alla limba comuna (comuna nel mio dialetto ha altro significato) riconoscono anche gli uffici della regione che stanno “unificando” – con esiti esilaranti – i toponimi della cartografia ufficiale. Punta Salippi (sale fino) all’Asinara è diventata Punta Sa e Lippi ( mi dicono significhi Punta dei Lippi. Chi sono?), Li Trumbetti Sas Trumpittas, ecc. Caro Stiglitz ma ti sei chiesto quanti interpreti serviranno sia per le narrazioni che, soprattutto, per gli atti ufficiali? Le leggi regionali sono già incomprensibili così, figuriamoci in una lingua costruita da qualche intellettuale in quota a qualche assessore. Lasciamo alla burocrazia l’italiano e al cuore riserviamo la nostra glottodiversità che è ancora viva e vegeta.

  2. Desi Satta scrive:

    Da “vile meccanico” (detto senza ironia, è un dato oggettivo) non posso fare a meno di chiedermi a cosa debba servire una lingua. Da tutto ciò che mi capita di sentire, non riesco a capirlo. A parte gli slogan, ad esempio “Sapere da dove si proviene per capire dove si vuole andare” quale sarebbe, per un cittadino, il vantaggio (in termini evolutivi) di saper parlare il “sardo” (posto che si riesca a definirlo)? Potrebbe accedere a maggiori informazioni? A maggior “sapere” (in senso lato)? Ad una letteratura altrimenti inaccessibile? Ad una storia più “vera” del proprio passato? Nell’articolo, molto godibile, come al solito, per la scrittura, non si capisce (o meglio “non lo capisco”). Cosa vorrebbe dire con: “(A) Cagliari […] il sardo è ancora un importante veicolo di comunicazione e può diventare, con l’italiano […], il crocevia di una nostra presenza nel Medditerraneo, come cittadini”? Mi è del tutto oscuro.

  3. Efisio Loni scrive:

    Gentile Stiglitz il suo articolo è molto puntuale e ben informato, Lo condivido. Io credo che quel giudice abbia fatto un abuso e che l’avvocato della difesa avrebbe dovuto far valere i principi della 482, ma passi. La realtà è che in Sardegna, in particolare nelle università, si è imposto un gruppo di accademici filologo-glottologi che hanno imbalsato l’idea di lingua a un post wagnerismo manierista insopportabile. La lingua è stata monumentalizzata e museificata per garantire studi tranquilli e carriere succose. Il prezzo l’ha pagato la lingua viva. Mi chiedo: sono maturi i tempi per ribaltare l’inconsistenza scientifica e l’irrilevanza internazionale della scuola filologico-glottologica sarda? Siamo fermi alle glosse degli autori di fine ottocento primi del novecento. Per non parlare dei luoghi comuni sulla lingua, mai verificati scientificamente, che gli stessi glottologi continuano a diffondere. La stessa guerra contro la lingua amministrativa serve a ricacciare il sardo nel ghetto del folclore e del dialetto. Mi chiedo, ma l’intellettualità libera in Sardegna esiste ancora? Ci si rende conto del crimine che si sta consumando? Grazie per l’ospitalità.

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