Lo sciopero e la crisi

16 Marzo 2012

Marco Ligas

In ventimila hanno partecipato allo sciopero generale dell’industria e dei servizi indetto da Cgil, Cisl e Uil il 13 marzo. È stato il quarto negli ultimi tre anni. Non è ordinaria amministrazione, è il segnale di un malessere profondo, interminabile. Talvolta si ha la sensazione che il  tempo si sia fermato; le ragioni della protesta sono sempre le stesse: arginare la disoccupazione, promuovere condizioni di vita che rispettino il diritto al lavoro, le libertà e la dignità dei cittadini sardi, insomma uscire dalla crisi vissuta sempre più come un processo devastante e irreversibile.
Comunque lo sciopero è riuscito anche stavolta, la partecipazione dei lavoratori alla manifestazione è stata imponente. 
Si riuscirà finalmente ad avere un riscontro sulle molteplici richieste avanzate dalle organizzazioni sindacali?È l’interrogativo che si sono posti coloro che hanno aderito allo sciopero; la risposta non è certa e i dubbi sono più che legittimi perché nelle occasioni precedenti le rivendicazioni sono rimaste inascoltate: nessuno, sia tra coloro che hanno governato sia tra quelli che avrebbero dovuto promuovere le nuove attività produttive, ha modificato le scelte di politica economica che hanno reso la Sardegna la regione più colpita dalla crisi.
Dovremmo valutare con attenzione le possibilità di un cambiamento della politica, capire se esistono le condizioni di un’inversione di tendenza nelle scelte di chi ci governa, soprattutto se è presente una volontà nuova per migliorare le condizioni di vita del popolo sardo, e in particolare di chi vive in condizioni di precarietà.
Non fare questa riflessione significherebbe venir meno alle attese di tanti cittadini, a partire da quelli che ancora una volta hanno aderito all’iniziativa delle organizzazioni sindacali.
Purtroppo i primi cento giorni del governo Monti non promettono niente di buono, sono in linea con quanto ha fatto precedentemente Berlusconi; i modi più sobri del nuovo Presidente non sono sufficienti per ipotizzare  un cambiamento delle politiche del governo, certi atteggiamenti al limite dell’arroganza di alcuni suoi ministri confermano questo timore. La scelta di ridurre la spesa pubblica, di contenere o eliminare gli interventi relativi agli ammortizzatori sociali non lasciano ben sperare circa la possibilità di recuperare le risorse finanziarie che alla Sardegna spettano di diritto. Se queste preoccupazioni saranno confermate nel corso delle prossime settimane sarà ben difficile realizzare interventi nei settori strategici dell’economia sarda. Il comparto industriale compreso quello energetico, la ricerca, l’istruzione e il settore agroalimentare saranno ancora abbandonati a se stessi e subiranno inevitabilmente gli effetti della crisi. E le aree devastate dalla speculazione e dagli insediamenti militari non saranno risanate.
Stando così le cose è probabile che la vertenza con lo Stato, sollecitata dalle organizzazioni sindacali, risulti ancora una volta inascoltata e rischi di diventare un espediente, antico quanto l’autonomia regionale, attraverso il quale le forze politiche locali rivendicheranno la loro disponibilità al cambiamento e al tempo stesso giustificheranno la loro impotenza rispetto alle scelte prevaricatrici del governo. 
Ma in questo modo potrebbe accentuarsi il divario tra i partiti e le organizzazioni sindacali le quali, non a caso, sempre più frequentemente lamentano l’inadeguatezza della politica rispetto alle lotte rivendicative. E potrebbe crescere anche la sfiducia dei lavoratori e delle lavoratrici nei confronti di tutti, organizzazioni politiche e sindacali, che non riescono ad imporre un cambiamento nella vita politica e sociale della Sardegna. 
Se questa tendenza si consoliderà bisognerà ripensare al modo in cui riprendere la lotta, ai suoi protagonisti e agli obiettivi da individuare, fuori dalla demagogia e dalle ambiguità delle alleanze politiche. Non si può essere anti-Stato in Sardegna e “dipendentisti” a Roma, né ci si può illudere che sia sufficiente fare affidamento sulla “sardità” dei sardi.
La storia e l’esperienza più recente ci confermano che certa sardità è un’ottima alleata del potere e che le alleanze principali vanno costruite tra le componenti sociali sottoposte all’arroganza del padronato, in tutte le forme in cui si manifesta.

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