Meriti storici e limiti ideologici e culturali del primo sardismo

30 Settembre 2023

[Francesco Casula]

Il Partito sardo d’azione nasce ufficialmente a Oristano il 17 aprile 1921 con Camillo Bellieni che viene eletto Direttore (oggi diremmo segretario politico). La sua genesi è però da ricondurre al Movimento combattentistico che, come associazione in Sardegna si costituisce fin dal 1919 con il Congresso di Macomer del 14 settembre.

  Il 16 novembre 1919, l’Associazione Nazionale Combattenti si presenta alle elezioni politiche  come lista del Partito dei combattenti e ottiene il 4,1% e 20 seggi. In Sardegna, (con Lussu che non ha ancora l’età prescritta per candidarsi), vengono eletti tre deputati: Mauro Angioni, Pietro Mastino e Paolo Orano.

   Alle elezioni provinciali dell’autunno 1920, a Sassari, la lista dei combattenti conquista la maggioranza e Pietro Mastino è eletto Presidente del Consiglio provinciale.

   Nelle elezioni politiche del maggio del 1921, il Partito Sardo d’Azione raccoglie circa 1/3 dei consensi elettorali dell’isola, cioè più del doppio dei voti socialisti (12,4%) e quasi tre volte quelli del PPI (11,3%). Pietro Mastino e Paolo Orano sono confermati deputati e risultano eletti anche Umberto Cao ed Emilio Lussu.

   A parte i successi elettorali, occorre rimarcare che il Partito sardo è il primo vero grande partito popolare e di massa in Sardegna: il Partito socialista (a parte qualche presenza nel Sulcis iglesiente con i minatori) è poco presente e ancor meno il Partito comunista, di recente fondazione (Livorno, 21 gennaio 1921).

   Prima del PSD’Az in Sardegna come in Italia erano presenti solo cascami di aggregazioni clientelari con cacicchi locali (nel Meridione conniventi spesso con la mafia e la criminalità) e camarille viepiù rinsecchite, che facevano riferimento soprattutto al liberalismo ottocentesco e, in particolare, al Partito liberale di Giolitti e in Sardegna a Francesco Cocco-Ortu.

   Grazie anche al sistema elettorale maggioritario e uninominale, uno dei principali strumenti di potere del Partito liberale di allora, i suoi esponenti, in genere appartenenti alle élites locali, riuscivano a raccogliere senza troppe difficoltà – in virtù soprattutto dei rapporti personali, di amicizia e di clientele – l’appoggio di un esiguo manipolo di elettori, qualche centinaio, e venivano eletti. Ricordo che nel 1861 il diritto di voto era riservato all’1,9% della popolazione: esclusivamente ai maschi di 25 anni con determinati redditi e titoli di studio. In Sardegna gli aventi diritto al voto erano 10 mila che salirono a 21.700 con la riforma elettorale del 1882, la cui percentuale salì in Italia al 6.9%.

   Con l’introduzione del suffragio universale (maschile, 1912) prima e del sistema elettorale proporzionale poi (1919), il sistema giolittiano (e coccortiano in Sardegna) andò gambe all’aria: di qui il successo del Partito sardo d’azione, anche a livello elettorale.

   La novità rivoluzionaria del Partito sardo consiste nella forma partito: organizzato, popolare, democratico e con leader prestigiosi carismatici, colti; ma soprattutto nel suo programma, con al centro la Sardegna e i suoi atavici e drammatici problemi, per consentire l’emancipazione economica e civile delle masse rurali con la sua partecipazione al governo dell’isola.

   Perché “Non fu – scriverà Lussu – propriamente un movimento di reduci, come quello dei combattenti in tutta Italia. Fin dal primo momento fu un generale movimento popolare, sociale e politico, oltre la cerchia dei combattenti. Fu il movimento dei contadini e dei pastori”.

   È Camillo Bellieni, il vero ideologo del Partito a sintetizzare in 4 punti il programma: sovranità popolare, autonomia amministrativa, autonomia doganale, questione sociale. La concezione autonomista viene così riassunta da Bellieni: conferimento di nuove funzioni alle province in materia di lavori pubblici, commercio e agricoltura; possibilità, attribuita alle stesse, di adattare alle particolari condizioni della regione tutti gli istituti e i provvedimenti sociali dello Stato senza peraltro alterarne le linee fondamentali. Secondo Bellieni l’attività delle province doveva essere «libera da ogni ingerenza e da ogni controllo statale, meno che in materia di legislazione sociale e tributaria».

   Mentre Emilio Lussu, l’altro grande leader, ne “La Carta di Macomer” (8-9 agosto 1920), propone uno Stato repubblicano con la previsione di una Sardegna assolutamente autonoma e ad esso federata. E nel primo congresso sardista, (1921) viene ribadita questa posizione chiarendo la differenza, davvero sostanziale, tra l’autonomia intesa come decentramento amministrativo e l’autonomia come diritto della Sardegna di legiferare per sé stessa. In tale assise si parlò chiaramente di “autogoverno del popolo sardo”, con finanze separate da quelle statali. Per lo Stato si reclamava la trasformazione in Repubblica, da organizzarsi in federazione di regioni autonome: ma sempre all’interno dell’Unità dello stato italiano. Su tale impostazione: Autonomia all’interno dell’Unità, si registra la convergenza delle diverse anime del sardismo.

   Ostili all’indipendenza dell’Isola sono infatti anche tutti gli altri dirigenti sardisti. Persino Egidio Pilia, anche lui fra i fondatori del Partito sardo, che pure era considerato il più estremista e con odore di “separatismo” nel suo opuscolo “L’autonomia sarda, base, limiti, forme”, pur impostando un programma di vera autonomia amministrativa, economica, doganale, non ritiene che si debba uscire dall’ambito dell’Unità d’Italia. Scrive infatti: ”Non vi è ragione perché il movimento sardo e le sacre aspirazioni sarde abbiano per ora impronta a carattere separatistico, non essendovi in questo momento convenienza politica a considerare le esigenze vitali dell’Isola in antitesi così insuperabile con quelle della nazione italiana, da non potersi altrimenti risolversi che con la creazione di uno stato sardo indipendente”.

“Il sardismo – era solito dire un grande patriarca come su biadu de Michele Columbu, che del PSD’Az è stato segretario nazionale e parlamentare italiano ed europeo – nasce da un sentimento. O meglio, da un risentimento”.

   Mai analisi politica e storica fu più precisa sintetica e fulminante. È stato proprio così: il Sardismo nasce da un “risentimento”. Contro lo stato italiano. La “Patria” italiana, madre matrigna. Che dai Sardi ha avuto tanto ma a cui ha dato poco o niente.

   Si riferiscono i primi Sardisti soprattutto agli immani sacrifici dei combattenti sardi nella Prima guerra mondiale: su 100.000 partecipanti ben 13.602 morirono. La più alta percentuale d’Italia, in proporzione agli abitanti. Per non parlare dei mutilati e dei dispersi. Con i Sardi eroici e valorosi nei fronti di guerra. E plurimedagliati ad iniziare dai suoi leader: Bellieni, Lussu e Giacobbe.

   ”Ma la gloria delle trincee – scriverà lo storico Raimondo Carta Raspi – non sfamava la Sardegna, anzi la impoveriva sempre di più. Al ritorno dalla guerra i Sardi non avevano da seminare che le decorazioni: le medaglie d’oro e d’argento, di bronzo e le migliaia di croci di guerra, ma esse non germogliavano, non davano frutto”.

   Eppure proprio i suoi leader da Lussu a Bellieni e Giacobbe avevano partecipato alla guerra entusiasti, come volontari: considerandola, patriotticamente, come la IV Guerra di Indipendenza per liberare le terre irredente. Anche loro condividono questa fola, diffusa e circuitata dai guerrafondai. Gli è che si sentivano italiani, italianissimi. Questa ahimè era la cultura dominante, specie nelle Università: di qui la posizione di Lussu. Che addirittura nel libretto universitario aveva voluto cambiare il suo cognome “Lussu” in “Lusso”, italianizzandolo. E solo il duro intervento del padre lo convinse a restaurare il cognome sardo.

   Di qui l’ostilità all’Indipendenza. Di qui la costante mancanza nei documenti sardisti della definizione del concetto di “nazione” in rapporto a quello di “Stato” e di conseguenza a quella relativa a una “nazionalità sarda”. Quando il termine nazione affiora, esso si riferisce sempre alla “nazione italiana”. Così pure non è mai trattato nei congressi né risulta trattato dai documenti il problema della lingua sarda.

   L’unico fra i dirigenti sardisti che argomenti nei riguardi dell’esistenza di una lingua sarda, di ceppo latino ma ben distinta da quella italiana è Pilia. Ed è anche l’unico sardista che nel primo dopoguerra individui chiaramente una “nazionalità sarda”: senza però trarre le dovute conseguenze, come abbiamo visto.

  Lussu parla di “nazione mancata” e Bellieni di “Nazione abortita”: confondono sia l’uno che l’altro, probabilmente, “nazione” con “stato”: il che in quella temperie italico-patriottarda era pienamente comprensibile.

   Ma anche dopo i “separatisti” avranno vita difficile, ad iniziare da Bastià Pirisi che nel 1946 fondò la Lega sarda un Movimento che si ispirava al separatismo siciliano: ma sebbene l’aspirazione a una Sardegna indipendente fosse diffusa nella base del Psd’Az, il suo movimento ebbe vita breve e stentata.

   E comunque sarà negli anni ’70 con Antonio Simon Mossa che avremo la nascita, anche a livello culturale l’elaborazione organica del moderno indipendentismo sardo, arricchito dalla elaborazione teorica di altri intellettuali del cosiddetto “Neosardismo”, con il compianto Eliseo Spiga in primis.

   Antonio Simon Mossa lucidamente e correttamente, andrà radicalmente oltre il “Primo sardismo”: per lui la Sardegna e non l’Italia è la nostra Patria, la nostra Nazione: nazione oppressa dallo Stato, brutalmente e pervicacemente unitario, accentrato e centralistico, nonostante alcuni imbellettamenti “autonomistici”. Una nazione “proibita” e “non riconosciuta” dallo Stato Italiano, emarginata dalla storia, insieme a tutte le altre minoranze etniche in Europa e nel mondo che “l’imperiale geometria delle capitali europee vorrebbe ammutolire”.  Contro cui è in atto un pericolosissimo processo di ulteriore dipendenza economica, ridotta com’è al ruolo di “colonia interna”, ma anche un “genocidio” culturale e linguistico. Per annichilire e distruggere l’identità dei Sardi – ad iniziare da quella linguistica – è infatti in atto e continua a operare, soprattutto attraverso la scuola di stato, un processo forzato di integrazione e di snazionalizzazione: certo, rispetto ai tempi bui del Fascismo, con i guanti di velluto invece che con il bastone e l’olio di ricino.

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