Nord Africa e Sardegna

1 Marzo 2011

Marco Ligas

Nei giorni scorsi Luciana Castellina e Rossana Rossanda,  riferendosi a ciò che sta accadendo in queste settimane nei paesi nordafricani, si chiedevano come sia successo che uomini che posero fine a sistemi feudali siano arrivati al punto di provocare sentimenti di odio in tanta parte delle popolazioni che pure li avevano sostenuti nelle fasi della lotta anticoloniale.
Si è trattato forse – si domandava Rossanda – di un anticolonialismo combattuto soltanto da avanguardie che una volta conquistato il potere lo hanno difeso non soltanto dagli avversari ma anche da coloro che, pur restando nel campo amico, lo hanno criticato soprattutto per il carattere elitario con cui si delineava l’organizzazione del nuovo stato?
Castellina non si è allontanata da questa diagnosi e ha sottolineato come ogni mutamento sociale, seppure affidato a vertici illuminati, è destinato a provocare contraccolpi inaspettati se le stesse popolazioni che hanno appoggiato la rivolta non vengono coinvolte nella direzione del paese. Gli interrogativi e le valutazioni di Castellina e Rossanda suggeriscono alcune riflessioni.
Provo a fare alcune considerazione avendo la consapevolezza di presentare in modo semplificato questioni che andrebbero affrontate più approfonditamente.
Parto dal tema relativo alla partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e all’efficacia della delega. Nel parlare di democrazia e pensando al nostro paese, usiamo spesso frasi come democrazia partecipativa, oppure riferendoci ai gruppi dirigenti dei partiti li definiamo gruppi chiusi, constatiamo come molti elettori si siano stancati delle elezioni perché i delegati sono sempre meno rappresentativi, diciamo che si sono formate delle caste, e così via con affermazioni analoghe. Credo che l’inadeguatezza della rappresentanza non solo abbia raggiunto una dimensione mondiale ma tenda ad accentuarsi dappertutto in profondità. Noi in Italia abbiamo un sistema istituzionale che contiene i contrappesi necessari, almeno sinora è stato così, per contrastare un potere sproporzionato di qualche istituzione a danno di un’altra. Ma questo equilibrio non è uguale in tutti i paesi. Talvolta il potere degli esecutivi raggiunge livelli insopportabili e allora esplodono le rivolte.
Per quanto riguarda i paesi del nord Africa è verosimile l’ipotesi che il processo di separazione tra le popolazioni che hanno sostenuto la lotta anticoloniale e le avanguardie che posero fine a quei sistemi sia stato originato dalla presunzione delle stesse avanguardie di godere di un diritto permanente di rappresentanza. Ma questa presunzione, col passare degli anni, ha offuscato le capacità di interpretazione dei governanti sino al punto che è sfuggita loro, tra le altre cose, l’importanza del ruolo che possono svolgere sia la conoscenza sia il sistema delle informazioni. Non a caso è stato sottolineato da tanti commentatori come le rivolte odierne siano state aiutate dalla rete fittissima delle comunicazioni attraverso internet.
Il fatto è, come sostiene Rossanda, che gli sfruttati di oggi appartengono a nuove generazioni, hanno altre aspettative. Non sono più disponibili ad accettare il dispotismo di chi detiene il potere senza partecipare ai processi di cambiamento e migliorare le proprie condizioni di vita.
Ma la crisi odierna dei paesi nordafricani ha anche altre motivazioni, deriva dal fatto che i gruppi illuminati della lotta anticolonialista hanno favorito la formazione di borghesie nazionali consentendo e usufruendo essi stessi, non senza il sostegno complice dell’occidente, di forme di proprietà pubbliche che sono spesso degenerate nella corruzione. Come spiegare diversamente le grandi ricchezze che questi leader hanno accumulato e depositato nelle banche dei vari paesi?
Le vicende del nord Africa hanno comunque riproposto all’attenzione del mondo intero il tema delle lotte anticoloniali e il ruolo che i dirigenti di quelle lotte hanno svolto.
Il concetto di lotta anticoloniale, e questa è l’altra considerazione che vorrei fare, viene spesso usato anche in Sardegna, soprattutto dai gruppi indipendentisti. È evidente come questo problema abbia da noi caratteristiche del tutto diverse da quelle nordafricane.
Mi soffermo rapidamente su questo concetto perché ho sentito da qualcuno, nel corso di queste settimane, che quanto sta avvenendo nei paesi nordafricani dovrebbe aiutarci nella lotta di separazione della Sardegna dall’Italia.
Davvero crediamo che quella lotta abbia a che fare con l’esperienza sarda? Credo proprio di no, sebbene non sfuggano a nessuno gli interessi molteplici che la borghesia sarda e nazionale coltivano in Sardegna.
In uno degli ultimi numeri del manifesto sardo mi chiedevo perché mai l’indipendenza della Sardegna dal resto dell’Italia dovrebbe consentire la liberazione della nostra isola dalle forme di sfruttamento che subiamo. Partivo dal convincimento che una classe dirigente sarda non garantisce di per sé la liberazione dallo sfruttamento. Guardiamo un po’ alla storia dell’autonomia. C’è stato forse nel corso di questi decenni qualche gruppo, fra quelli che hanno governato, che abbia difeso con efficacia e determinazione gli interessi del popolo sardo a partire dalle fasce più diseredate? Nessuno l’ha fatto. Si è creata piuttosto un’alleanza tra i gruppi di potere sardi e quelli nazionali; questa alleanza si è dispiegata sia a livello politico che economico, gli interessi che sono stati difesi sono quelli della borghesia sarda e continentale. Ma anche oggi qual è la situazione che registriamo? Abbiamo gruppi dirigenti sardi in connubio con la P2 o P3, organizzazioni malavitose che intendono devastare il nostro territorio e arricchirsi a nostre spese.
Se non vogliamo perciò sbagliare strada, dobbiamo considerare preliminare il ruolo che le classi dirigenti svolgono nel governo di una nazione e riflettere con più attenzione sulla funzione che il capitalismo svolge a livello mondiale per capire come contrastarlo anche nel nostro paese e nella nostra regione.

7 Commenti a “Nord Africa e Sardegna”

  1. Omar Onnis scrive:

    Tutto vero. Ma non bisogna confondere l’esperienza autonomista – che nasceva sulla base dell’avversione all’indipendenza e si fondava sui concetti sardisti di nazione abortiva e di connaturata subalternità dei sardi – e istanze indipendentiste. È l’attuale classe dirigente sarda ad essere inadeguata, non “una” classe dirigente sarda in quanto tale. Altrimenti, è mero autorazzismo. L’indipendentismo, storicamente, ha fatto spesso ricorso all’armamentario retorico anticolonialista. In certi ambiti e per certi risvolti con ragione. Ma un processo di indipendenza della Sardegna non potrà essere tale e quale le lotte di decolonizzazione e liberazione avvenute nel secondo dopo guerra. Chi potrebbe sostenerlo, oggi? Un po’ di più dovrebbero darci da riflettere gli eventi nordafricani attuali. Non credo si possano liquidare come totalmente alieni da noi. Inoltre ormai c’è sulla piazza un indipendentismo sardo decisamente diverso da quello dei decenni scorsi. Intanto si basa – almeno in una delle sue componenti: ProgReS – su nonviolenza e non nazionalismo. Inoltre parte dal presupposto che l’indipendenza in quanto tale non sarà la panacea di tutti i mali, ma affronta le questioni strutturali dei beni collettivi, dell’energia, del lavoro nella prospettiva di imporli all’agenda politica durante la costruzione del nostro stato indipendente. E fa dell’inclusività culturale e sociale un obiettivo primario. Ignorare queste posizioni è piuttosto miope e ingiustificato, per la sinistra sarda.

  2. Mario Cubeddu scrive:

    Caro Marco, cari compagni, Gheddafi si prepara ad usare i decenni di potere e di complicità col potere italiano, europeo, mondiale, per sterminare la rivolta dei libici che vogliono solo essere liberi. Ancora una volta è il linguaggio della forza contro quello di qualsiasi diritto. Se noi non siamo in grado di fare qualcosa per aiutare gli amici, fratelli, compagni della Libia che combattono e muoiono per se stessi e per noi, credo che nessuno avrà più diritto di lamentarsi perchè nessuno si batte per lui. Questo è il fronte della libertà e dei diritti di oggi. Dobbiamo uscire dai compromessi italiani che ci confondono con il colonialismo assassino. In un anno in cui l’Italia si riempie la bocca di eroismo libertario perchè non partire per la Libia e difendere la sua e la nostra libertà? Solo così l’Italia potrebbe dimostrare di avere una costituzione democratica e non un pannolino per le sue vergogne. Vogliamo festeggiare 150 anni di lotta per qualcosa? Aiutiamo la rivoluzione in Libia!

  3. Marco Ligas scrive:

    Credo che nessuno di noi, se non altro per l’età che abbiamo, confonda l’esperienza autonomista con le istanze indipendentiste.
    Nell’articolo che Omar Onnis commenta parlo di classi dirigenti inadeguate e mi riferisco a quelle che hanno governato la Sardegna in questi 60 anni, certo non tutte allo stesso modo ma tutte con subalternità. Sostengo che una classe dirigente sarda non garantisce di per sé la liberazione dallo sfruttamento. Che cosa significa? Che non basta essere sardi per fare gli interessi del popolo sardo (ma questa tesi vale per tutti, qualunque sia la regione o la nazione di appartenenza). Che c’entra l’autorazzismo? Piuttosto ha importanza il sistema delle leggi che vige in una nazione; ma questo sistema, anche il più avanzato, non è sufficiente a garantire la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, obiettivi verso i quali tendiamo tutti noi (ma è così?). Senza la libertà, il diritto di partecipazione al governo del paese, la divisione dei poteri e l’equilibrio tra essi nessuna indipendenza potrà sopravvivere. Penso piuttosto che occorra affrontare le questioni del lavoro, dei beni collettivi, dell’energia ecc., nella prospettiva di imporli nel programma di chi governa l’isola (io che non sono indipendentista dico dell’esecutivo regionale). Ritengo inoltre molto importanti i riferimenti sulla nonviolenza, sul non nazionalismo e sull’inclusività, valori che è sempre bene ribadire perché favoriscono l’approfondimento del confronto.

  4. Omar Onnis scrive:

    Dire che non basta essere sardi per voler (poter) fare il bene della Sardegna mi pare, con tutto il rispetto, una banalità. Come tale, appunto, generalizzabile. Del resto, dobbiamo essere consapevoli che i maggiori guasti di cui soffriamo sono frutto anche e soprattutto dell’azione o dell’inazione di noi sardi medesimi. Le ciance rivendicazioniste verso l’Italia matrigna, ecc. o le processioni col cappello in mano da questo o quel ministro o persino dal papa, sono sintomo di debolezza politica e di scarsa consapevolezza culturale. Ma il discorso era diverso. Si affermava che qualsiasi classe dirigente sarda sarebbe inadatta, in quanto sarda, a gestire una transizione alla sovranità e farsene carico pienamente. Ecco, se si sostiene questo si sostiene una tesi ideologica chiaramente autorazzista. Libertà, uguaglianza, benessere diffuso (che non ha a che fare con la disponibilità di beni di consumo o con la crescita economica illimitata), dignità del lavoro, accesso ai beni collettivi, sono obiettivi che devono far parte di una prospettiva indipendentista responsabile. Altrimenti questa non avrebbe senso. L’indipendenza di per sé non garantisce automaticamente tutto ciò. L’indipendentismo populista e retorico è solo un espediente per entrare nelle dinamiche di potere, con un proprio ruolo marginale ma definito e riconoscibile. Cosa che avviene, per certe formazioni “indipendentiste”, e con certi personaggi cari al “sistema”. Ma il panorama è più vasto, per fortuna.

  5. Mario Cubeddu scrive:

    Le notizie che ci arrivano dalla Libia creano preoccupazioni ed emozioni. Per tutti noi si tratta di un momento molto importante. È opportuno mandare un messaggio di solidarietà al popolo libico, a tutti i paesi del nord Africa, ai giovani che combattono per la libertà. Le nostre isole devono essere protagoniste. Per tanto tempo terre di conquista oggi sono in grado di fare scelte di responsabilità. La comprensione di ciò che sta accadendo è fondamentale. Altrettanto importante è dare ascolto alle reazioni che la passione e il cuore suggeriscono. Dobbiamo fare subito qualcosa per aiutare i giovani libici che si stanno battendo per la loro libertà.
    La richiesta di libertà del nord-Africa, arrivata all’improvviso alla nostra presunzione “europea”, proviene dalla storia, dalle dinamiche di alfabetizzazione e dal tasso di fecondità, dall’urbanizzazione e dall’uso moderno dei media, le stesse dinamiche di trasformazione in cui noi viviamo.
    In questo anno di retorica unitaria sottoposta al pesante ricatto della Lega, che vuole gli italiani uniti dentro il suo ricatto razzista, è il tempo di proporre alle donne e agli uomini delle isole di guardare un mondo pieno di energia e di voglia di battersi. I giovani che sbarcano in Italia in questi giorni credono di conoscerci bene, hanno di noi un’idea migliore di quella che meritiamo. E’ una buona occasione per l’Europa e per un’Italia ancora in formazione dopo 150 anni, per meritare la stima e ’l’affetto dei nostri fratelli e vicini.

  6. Marcello Madau scrive:

    Non ritrovo l’affermazione, se non nelle critiche di Onnis, che qualsiasi classe dirigente sarda sarebbe inadatta. Spero a questo punito che l’autorazzismo non c’entri davvero, in senso inverso.
    Mi sembra chiaro – persino banale sottolinearlo – quanto dice Marco, ovvero che l’essere sardi non è condizione sufficiente per garantire il bene della Sardegna.
    Ma non è banale affermarlo, soprattutto perchè il reiterato (questo sì banalissimo) ribadire che intanto la divisione è fra sardi da una parte e italiani (e partiti italiani, variamente denominati) dall’altra come conditio sine qua non per creare una base politica, appartiene purtroppo al linguaggio comune degli indipendentisti.

  7. Stefano Deliperi scrive:

    io, banalmente, mi sento sardo e italiano, italiano e sardo, nel medesimo momento.

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