Palazzina Laf: un film scomodo e necessario

13 Aprile 2024

[Francesca Pili]

Palazzina Laf, uscito – ahimè, ahinoi – in pochissimi cinema italiani il 30 novembre del 2023, segna l’esordio alla regia del finora solamente attore Michele Riondino.

Un fulgido esordio, che porta con sé non soltanto la conoscenza approfondita della storia ignobile dell’acciaieria ILVA di Taranto e delle sue ricadute sul territorio tarantino (dove Riondino è nato e cresciuto), ma anche l’eredità di molto cinema civile d’autore, tra dramma e commedia, dalla saga grottesca del Fantozzi villaggiano, fino all’alienazione stralunata de La pecora nera di Ascanio Celestini, a Brazil di Terry Gilliam, Tony Manero di Pablo Larrain e, ovviamente, La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri (qui, la classe operaia va davvero in – una sorta di – pseudo-paradiso, salvo poi scoprire che si tratta, se non proprio di un inferno, certamente di un purgatorio: questo è la Palazzina Laf, acronimo di «Laminatoio a freddo», il reparto-confino dell’ILVA dove venivano relegati e vessati gli impiegati e le impiegate che si opponevano al demansionamento).

Più di tutti, però, il personaggio di Caterino Lamanna, che Riondino si cuce addosso ricavandone la miglior interpretazione della sua carriera, è un poveraccio borioso, ignorante e ridicolo, degno del miglior cinema anarcoide di Lina Wertmüller: un ruolo che negli anni Settanta del ‘900 avrebbe potuto essere interpretato da Giancarlo Giannini, e che però, come accennato poco sopra, porta con sé anche la rabbia proletaria di molti personaggi incarnati da Gian Maria Volonté.

Palazzina Laf è tratto dal libro Fumo sulla città dello scrittore Alessandro Leogrande, scomparso prematuramente sette anni fa, che avrebbe dovuto partecipare pure alla realizzazione della sceneggiatura, e al quale il film è dedicato.

«ILVA is a killer» è la scritta che campeggia su un muro vicino alla fabbrica, inquadrata a un certo punto del film, e non lo è solo in senso fisico, letterale, date le morti per malattie causate dalla vicinanza agli altiforni e dal mancato rispetto delle norme di sicurezza sul luogo di lavoro, ma anche nella volontà di umiliare sistematicamente i suoi e le sue dipendenti con strategie che, da allora in poi, sarebbero state definite “mobbing”.

Di fatto, invero, quello dell’ILVA e della Palazzina Laf è il primo grande caso riconosciuto di mobbing della storia operaia italiana, e, tra le altre cose, mostra in maniera icastica, tagliente, impietosa che, quanto e come il capitale sappia licenziare (anche) senza licenziare.

La storia è interessante, angosciante, tremendamente attuale, caratterizzata da una foga, un senso di ingiustizia e un anelito di giustizia civile, raccontata assai bene da Riondino, pure grazie a una ricostruzione scenografica e a un montaggio di buon livello, oltre che a un cast composito, azzeccato e affiatato, nel quale spiccano lo stesso Riondino e quella garanzia totale di bravura che risponde al nome di Elio Germano, senza però oscurare nessuna e nessuno delle e degli altri interpreti, da Vanessa Scalera a Paolo Pierobon, tutti bravissimi.

Degna di nota anche la colonna sonora: le musiche originali sono di Teho Teardo; risaltano, poi, i brani The bad touch della Bloodhound Gang, a inizio pellicola, Sogno l’amore di Andrea Laszlo De Simone, e il pezzo originale scritto apposta per il film dal cantautore Antonio Diodato, La mia terra, che accompagna i titoli di coda

Palazzina Laf è un film dal solido impianto civile.

Un affresco verista scomodo, disturbante,

prezioso, coraggioso e necessario.

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