Per il bene delle donne

1 Agosto 2010

campetti

Manuela Scroccu

“Non si può continuare a lavorare tutte fino alla stessa età senza considerare il tipo di lavoro che si svolge, la vita che si fa, e senza pensare al futuro di tante giovani donne”. Così inizia il comunicato che lancia “l’operazione trasparenza”, prime firmatarie Ritanna Armeni, Maria Luisa Boccia, Daniela Brancati, Gloria Buffo, Elettra Deiana. L’idea è semplice (trovate il link su www.manifesto.it): rendiamo visibile ciò che è nascosto invitando le donne a dichiarare pubblicamente “tutti i lavori che svolgiamo, retribuiti e gratuiti, produttivi e riproduttivi, obbligati e volontari”. Secondo l’Eurostat e la Commissione Europea le donne italiane sono quelle che in Europa lavorano di più: 60 ore la settimana. Queste ore non comprendono, evidentemente, tutte quelle attività prestate gratuitamente, invisibili agli indicatori economici, che invece hanno consentito all’inefficiente stato sociale italiano di non implodere: le ore spese per la casa e la famiglia, l’assistenza prestata ai genitori anziani, oppure a un familiare disabile. A fronte di questo impegno, le donne italiane si devono confrontare con un mercato del lavoro che offre loro, molto più che alle colleghe europee, precarietà, carriere intermittenti e non commisurate alle proprie competenze, redditi più bassi, scarsità di servizi sociali, assenza di rappresentatività, e ora anche la scelta dell’innalzamento dell’età pensionabile per il solo pubblico impiego, almeno per adesso, a 65 anni entro il 2012. Una questione complessa, quest’ultima, che incombeva già da qualche hanno sulle vite delle lavoratrici italiani. Il sistema pensionistico pubblico italiano era effettivamente da tempo nel mirino dell’Europa. La procedura d’infrazione che ne è seguita è culminata in una decisione della Corte di Giustizia Europea che, con una sentenza del 2008, ha ritenuto che il regime pensionistico INPDAP, che consentiva a uomini e donne del pubblico impiego di andare pensione in età diverse, fosse discriminatorio nei confronti delle lavoratrici italiane perché ritenuto in contrasto con l’art. 141 del Trattato che sancisce il principio della parità di retribuzione tra uomini e donne. Un vero e proprio paradosso. L’Europa, nei mesi scorsi, ha chiesto il conto e il governo, per il quale la categoria delle donne del pubblico impiego non è certo al primo posto, ha risposto zelante e speranzoso di fare cassa. Il ministro del Walfare Maurizio Sacconi si è subito affannato a dare i numeri: 1,450 miliardi di euro tra il 2012 e il 2019, questo il risparmio dello Stato che potrà investire  tali risorse, su esplicita richiesta del ministro delle Pari opportunità Mara Carfagna, in un fondo della presidenza del Consiglio, destinato ad azioni positive per la famiglia e per le donne. L’innalzamento dell’età pensionabile è stato presentato come una grande opportunità per colmare le gravi inadempienze italiane rispetto al raggiungimento dell’obiettivo di Lisbona, una sorta di leva magica che ci permetterebbe di balzare miracolosamente dal nostro misero 46 per cento di  tasso di occupazione femminile all’agognato 60 percento previsto. Un’occasione ghiotta da cogliere al volo, insomma, senza prestar fede a vecchie battaglie sindacali che non fanno il “bene delle donne”. Stupisce la distanza siderale tra la realtà quotidiana delle persone e le stanze del potere e, ancora una volta, appare evidente la mancanza della rappresentanza politica delle donne e del lavoro. La signora Anna, per fare un esempio, fa tre lavori. C’è il lavoro d’ufficio in un ente pubblico: Anna è l’ultimo gradino della scala gerarchica, anche se molto spesso, per la carenza di personale, si trova a svolgere mansioni che non le competerebbero, ma non si lamenta. C’è poi il lavoro domestico, che è tutto sulle sue spalle, nonostante la liberazione sessuale, il femminismo e gli anni 70. C’è il lavoro di cura: la signora Anna deve pensare all’anziana madre, che ha bisogno di assistenza continua. Quanto vale il suo lavoro? Perché la verità è che, quando si calcolano gli anni di lavoro femminile, due più due fa cinque e il riconoscimento sociale del lavoro di cura, con la sua redistribuzione tra donne e uomini, è un tema che bisogna affrontare se non ci si vuole accontentare di una parità fittizia. Un’altra civiltà deve contemplare nuovi modi di lavorare, uno stato sociale efficiente e libertà di scelta, anche nell’impostare un sistema pensionistico più equo che tenga conto del valore effettivo del lavoro svolto e delle esigenze personali. Deve garantire, insomma, la possibilità di avere una vita che non sia la maratona quotidiana affrontata delle lavoratrici italiane di oggi.

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