Per un pugno di sabbia

1 Marzo 2013
Gianpaolo Cherchi
Sono trascorsi ormai 11 anni dal 2002, anno in cui i cittadini di Muros (piccolo centro alle porte di Sassari) occuparono per diversi mesi la cava nella regione “San Leonardo”, costringendo le ruspe della Caolino Panciera S.p.A. (società controllata dalla multinazionale modenese Emilceramica) ad abbandonare la cava, rinunciando così allo sfruttamento di uno degli ultimi lembi verdi di un territorio di per sé già devastato dallo sfruttamento e dall’attività estrattiva.
Ebbene, a distanza di 11 anni da una delle più importanti lotte in Sardegna per la tutela del territorio, poco o nulla è cambiato, e se diamo uno sguardo alla situazione attuale, ci troviamo davanti ad un quadro desolante. Rimanendo nell’ambito dell’hinterland sassarese (in particolare nei già esigui territori comunali di Ossi, Muros e Florinas) ritroviamo un territorio già da tempo sacrificato all’attività estrattiva, e che ancora oggi presente enormi ferite sul piano paesaggistico e ambientale.
L’esempio più concreto ed evidente di questa tragica situazione lo offre la cava di “Su Padru”. Sfruttata per diversi decenni dall’Italcementi S.p.A., oggi, dopo una progressiva diminuzione delle attività, culminata con la chiusura dello stabilimento industriale e la fine delle attività estrattive, i cittadini ossesi si ritrovano con una cava dismessa alle porte del paese, per la quale non è stato ancora intrapreso alcun intervento di ripristino ambientale, dal momento che la cava risulta ancora in concessione all’Italcementi, nonostante questa abbia annunciato la cessazione dei lavori (con relativa chiusura del cementificio di Scala di Giocca). E se da un lato le amministrazioni locali si trovano impotenti ed impossibilitate a revocare concessioni o ad imporre obblighi di ripristino, in quanto tali competenze spettano alla Regione, dall’altro, quest’ultima, ha fatto sapere che solo il prossimo anno decadrà la concessione mineraria, qualora l’Italcementi non dovesse presentare alcun progetto di attività estrattiva. Solo da quel momento in poi sarà possibile avviare la procedura di ripristino ambientale, per la quale, in base ad un protocollo d’intesa del 2008 fra l’Italcementi e la Regione, dovranno essere reimpiegati i dipendenti dello stabilimento (ormai ex-dipendenti, visto che dal novembre 2012 si trovano in mobilità). Solo dopo l’avvenuto ripristino, dunque, si potrà decidere l’utilizzo degli oltre 100 ettari di territorio su cui si estende la cava.
Un altro esempio di devastazione ambientale ci viene fornito dalla cava di silicio del giacimento di “Monte Mamas”, tra i comuni di Ossi e Florinas, dove l’attività estrattiva è portata avanti dalla Minerali industriali S.p.A., multinazionale presente in varie nazioni, e che in Sardegna controlla diverse unità produttive attraverso la Maffei Sarda Silicati S.p.A. Qui l’attività estrattiva non si è fermata, e le mine continuano ad esplodere per estrarre feldspato. Lo sfruttamento della cava, iniziato nel 1990, pare che abbia uno sviluppo proiettato fino al 2030, cosa che comporterebbe la totale distruzione del patrimonio non soltanto paesaggistico e ambientale, ma anche storico e culturale, dal momento che la cava sorge in prossimità di vari siti archeologici, tra i quali la necropoli ipogeica di Mesu e’ Montes, che si trova a poche centinaia di metri dalla cava, il cui complesso è tra i più grandi e importanti di tutta la Sardegna. Qui a nulla sono valse le azioni di protesta degli attivisti e dei cittadini (portate avanti sin dai primi anni ’90) per fermare lo scempio, anche a causa di una presa di posizione piuttosto “soft” da parte delle amministrazioni comunali, limitatesi ad imporre un divieto di transito nei centri abitati ai camion che trasportano il materiale estratto, facendo però assai poco per la tutela ambientale e la difesa del patrimonio archeologico.
Lecito chiedersi, dunque, a cosa sia valso tutto ciò, e quale tornaconto abbiano avuto i comuni della zona nel cedere il loro territorio alle multinazionali, e quali benefici abbiano ricavato i cittadini. Ovviamente non un guadagno dal punto di vista ambientale, non solo per quanto riguarda l’attività estrattiva nello specifico, ma per tutto ciò che questa implica: spargimento di polveri sottili che vanno a contaminare l’area circostante le cave, rendendola incoltivabile; esplosione delle mine che, specie nella cava di Monte Mamas, rischiano di danneggiare irrimediabilmente reperti archeologici dal valore inestimabile. Non può essere considerato un beneficio nemmeno il lavoro, o almeno non più. Se allo stabilimento di Scala di Giocca, negli anni ’60 e ’70 trovarono impiego all’Italcementi diversi abitanti dei paesi della zona, già dagli anni ’80 ci si avviò verso quel lento declino che ha portato, oggi, alla chiusura dello stabilimento, con la relativa perdita di tutti i posti di lavoro; e lo stesso discorso vale per la Sarda Silicati, dove alla cava di “Monte Mamas” il numero complessivo dei dipendenti è assai al di sotto dei 100.

Resta soltanto l’aleatoria promessa di un ripristino ambientale fino ad ora solamente millantato (come nel caso della cerimonia tenutasi la scorsa estate in occasione del Minerals Day, nella quale è stata presentata la prima porzione di area verde ripristinata all’interno della cava di “Monte Mamas”), ma per la cui effettiva riuscita bisognerà attendere ancora molto tempo.

2 Commenti a “Per un pugno di sabbia”

  1. Elena Cherchi scrive:

    Che amarezza… quello che sta tra le righe di questo articolo è ancora più triste. Veder sacrificare ciò che avrebbe potuto rappresentare il patrimonio culturale di un territorio per la mera estrazione di cava…sfruttata ancora come “miniera a cielo aperto”. Non c’è neanche la consolazione della ricaduta economica, visto che le sabbie vengono lavorate fuori dall’isola. Chi come me lavora nei siti archeologici è costretto a vedere uno spaventoso paesaggio lunare che diventa ogni giorno più vasto…a noi lasciano solo la polvere, crepe sulle domus millenarie, un’isola archeologica circondata da voragini.

  2. Giacomo Oggiano scrive:

    Il caso Muros è emblematico del centralismo cieco della RAS . Il PRAE ha assimilato il regime di concessione di minerali da cava ai minerali da miniera. Ciò consentiva , e ancora consente, di estromettere le comunità locali dalle decisioni sul destini dei loro territori. Detto questo, Muros è stata comunque bloccata perchè il piano di cava era scandaloso: l’estrazione entrava dentro il paese e il progetto falsificava palesemente dei dati reali. Il discorso di Florinas è diverso, gli impianti di prima lavorazione in loco danno lavoro , con l’indotto, a un bel po’ di persone. Tutto sta a limitare i danni pretendendo il ripristino ( la legge prevede una fidejussione) e a costringere la multinazionale a non forzare l’estrazione oltre il consentito dal progetto approvato. Quanto alla seconda lavorazione, i tentativi di finire il prodotto in loco sono falliti (anche se Guspini non è che sia proprio in loco)
    per altri motivi. Forse se avessimo avuto il metano per i forni (produzioni ceramiche) qualcosa in più si sarebbe vista.

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