Povera terra (madre)

1 Novembre 2010

Buffalo_Bill's_Wild_West_Show

Mario Cubeddu

“Quos vult perdere, dementat”: chi governa i destini dell’uomo, quando vuole rovinarlo, lo porta alla follia. Le frasi celebri latine andrebbero evitate, ma non c’è un modo diverso per esprimere, con sintesi altrettanto efficace, l’affacciarsi della follia nei momenti in cui un individuo, o un popolo, corrono a precipizio verso la catastrofe. Come nel nostro caso sardo. A metà settembre, davanti ad assessori, sindaci, al capogabinetto dell’Assessorato all’Agricoltura della Regione Sardegna, è stata lanciata l’idea del saccheggio autorizzato, organizzato, finanziato dalla Regione sarda, delle erbe e frutti spontanei della Sardegna. Senza che questo provocasse alcuna reazione di protesta da parte di inesistenti opposizioni politiche e culturali. Qual’è l’idea? Creare in un centinaio di paesi sardi due gruppi da 25 persone di raccoglitori dei prodotti spontanei della terra: mirto, corbezzolo, more, fichi d’india, cicoria, bietole, rucola, asparagi, finocchi salvatici, carrube. Si parla di 6000 persone che troverebbero una soluzione ai loro problemi di occupazione. 50 predatori scatenati sul territorio di 120 paesi. 6000 locuste all’assalto di terreni, siepi, macchia, alberi. Il bottino raccolto verrebbe immagazzinato in centri di raccolta, catalogato, impacchettato e trasformato da varie centinaia di operai . Si è affermato che nel settore troverebbero posto almeno 200 impiegati, a curare il versante burocratico del saccheggio. Per questi ultimi posti si saranno già prenotati i parenti dei politici, certo non disposti a farsi strappare le magliette firmate, né macchiare di fango le scarpe di marca, sui rovi del 7 Fratelli e sui pendii di Monte Linas. Quale odio, quale rapporto perverso con la propria terra, può aver dato origine a questa idea? Forse la recente privazione della proprietà comune, l’esproprio subito dalla maggior parte dei sardi appena 150 anni fa, a vantaggio dello Stato italiano, dei grandi speculatori continentali e di un numero importante di prinzipales? Questa fantasia predatoria potrebbe anche sembrare l’estensione dell’atteggiamento dei cittadini che si recano in campagna la domenica e nei giorni di festa e credono che tutto quello che trovano sia a loro disposizione, dai frutti delle piante agli animali, allevati o no, che popolano il territorio. E’ giusto pensare che la terra sia anche una casa comune, ma spesso si ignora che vi è qualcun altro che ogni giorno la abita, la lavora, conta sui suoi prodotti per vivere in maniera dignitosa. I prodotti elencati nella proposta degli amministratori di Quartu S. Elena crescono spontanei dentro terreni che appartengono a contadini e pastori. Perché allora non anche carciofi, pomodori, mele, albicocche, agnelli, maialetti, vitelli, olive? Perché meravigliarsi se certi invasori delle campagne armati di fucile vengono fermati, spogliati, derubati, forse brutalizzati? La risposta a tutti questi dubbi è molto più semplice e attuale. Si tratta della prima attuazione del progetto politico esposto da Silvio Berlusconi nel corso della campagna elettorale per le regionali sarde del 2009. “La meravigliosa terra sarda”, di cui anche egli fa parte, anche lui sardo,visto che ha comprato casa nell’isola e gliene è stata consegnata la bandiera, può vivere sfruttando il suo patrimonio vegetale. Per questo, oltre che camerieri, i sardi della Sardegna di Berlusconi sono destinati a diventare giardinieri, occupati a pettinare i salici e a fare la barba ai fichi d’india di Villa Cerosa. Il progetto degli emuli sardi del Cappellacci sostenitore dei 100.000 (centomila!) nuovi posti di lavoro in caso di vittoria è stato chiamato “Grazie, terra” ed enfatizza il contributo che la campagna può dare a risolvere i problemi della disoccupazione in Sardegna. In realtà trasformerebbe la Sardegna in un deserto, lasciando i lavoratori coinvolti per strada dopo pochi mesi, con l’ennesimo spreco di soldi pubblici. Il richiamo alla Terra, madre benefica, ricorda la grande riunione di contadini di tutto il mondo promosso a Torino da Slow Food in occasione del Salone del gusto. La Sardegna era presente con alcuni prodotti di eccellenza e lo era anche con i gravi problemi che si trova ad affrontare la sua pastorizia. Il martedì precedente il Movimento dei pastori aveva affrontato nei vicoli di Marina il suo battesimo del fuoco sostenendo e vincendo lo scontro con i militari schierati a difesa dell’ingresso al Palazzo del Consiglio Regionale. Il malessere che ha provocato la rivolta dei pastori è abbastanza chiaro. Lo sono meno gli obiettivi della lotta e le soluzioni del problema. A Torino Carlo Petrini ha parlato della concorrenza, nei confronti di quelli sardi, dei formaggi proveniente da paesi inclusi di recente nella Comunità europea e della necessità di riqualificare la produzione del settore. Un mercato globale e la concorrenza a livello mondiale, uno sbocco commerciale unico e obbligato per un prodotto forse obsoleto, la predominanza del mercato americano, l’opposto di una politica della qualità e dello smercio a poca distanza dal luogo di produzione, sono gli elementi che possono contribuire a spiegare la difficoltà di vendere il pecorino romano e il calo di prezzo del latte di pecora sardo. Sin dai primi decenni del Novecento politici ed economisti sardi denunciavano il carattere coloniale, per dirla in breve, degli aspetti produttivi e commerciali del pecorino romano in Sardegna. Ora questa vicenda, come altre vicende sarde, sembra arrivata alla finale resa dei conti. I pastori hanno visto sinora la neutralità, se non il sostegno dell’opinione pubblica. Non bisogna però nascondersi l’esistenza di una forte corrente antipastorale che insiste sull’assistenzialismo diffuso nelle campagne. Come se questo non riguardasse allo stesso modo tutti i settori produttivi dell’isola. Le decine di migliaia di lavoratori della terra non meritano meno rispetto per il fatto di essere autonomi e non dipendenti. Non c’è bisogno di scomodare Gramsci per ricordare che una politica progressista ha bisogno anche del sostegno di chi lavora la terra. Le ultime elezioni regionali hanno dimostrato che la delusione della gente di campagna costa cara alle forze di sinistra.

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