Reddito di cittadinanza: è possibile in Sardegna?

8 Gennaio 2014
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Giovanni Nuscis

L’articolo di Gianfranco Sabattini pubblicato su il manifesto sardo del 1° gennaio meriterebbe un ampio dibattito soprattutto in vista delle prossime elezioni regionali, che col rinnovamento del Consiglio e della Giunta potrebbero vedere, finalmente, scelte di politica economica e di welfare importanti per l’Isola, considerata la gravità della situazione sociale e occupazionale e il bisogno di vero cambiamento. Si condivide dell’articolo richiamato, in particolare, l’auspicata futuribile erogazione di un reddito incondizionato a tutti i residenti, slegata dalla prestazione lavorativa ma non dal reddito, sia nell’ottica di un sostegno individuale sia in quella d’una “sana ed umana” flessibilizzazione del mercato del lavoro. Si tratta evidentemente di un istituto ora purtroppo non realizzabile in modo integrale, considerate le risorse disponibili nei bilanci dei principali Enti pubblici (Stato e Regioni). Questo però non impedisce di guardare a possibili soluzioni alternative. Il reddito di cittadinanza trae origine da una Raccomandazione del Consiglio delle Comunità europee del 24 giugno 1992 con cui si raccomandava agli stati membri di riconoscere, nell’ambito d’un dispositivo globale e coerente di lotta all’emarginazione sociale, il diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni adeguate per vivere dignitosamente, e di adattare eventualmente i propri sistemi di protezione sociale secondo i principi e gli orientamenti stabiliti nella Raccomandazione. Senza limiti di durata a patto che permangano i requisiti stabiliti. Un tale reddito è previsto in tutti i paesi europei ad eccezione dell’Italia, dell’Ungheria e della Grecia. In questo caso è dunque la condizione di povertà il presupposto per la concessione dell’assegno. Ci si deve però chiedere se una tale forma di reddito non debba avere un altro fondamento. Idealmente, l’attribuzione del reddito di cittadinanza dovrebbe infatti derivare non solo da un generico dovere di solidarietà, ma da un “obbligo” sociale di restituzione di ciò che il singolo non può più ottenere direttamente in natura per le sue esigenze personali e familiari, avendo la privatizzazione e la demanializzazione della natura (soprattutto della terra e dei suoi prodotti) precluso questa possibilità, se non commettendo un reato (furto, occupazione di suolo pubblico, violazione di domicilio etc.). Il fondamento solidaristico di tale reddito non va per questo disgiunto da un dovere di riparazione per il venir meno di un diritto originario. Ciò premesso, la proposta di A.L.B.A. Sassari, ospitata su questa rivista, e quella del neonato Movimento per il lavoro l’ambiente i diritti ritiene possibile, in Sardegna, contestualizzare e armonizzare la necessità dell’erogazione di un reddito di cittadinanza con quella: 1) di creare nuovo lavoro, e conseguente reddito (correlati a progetti di sviluppo locale da parte dei territori), 2) di creare le condizioni per una ripresa economica intervenendo su tutti i settori rilevanti (ambiente, patrimonio culturale, scuola e formazione, industria, commercio, agricoltura, infrastrutture, servizi sociali, edilizia, costruzione di alloggi per gli indigenti), 3) di migliorare l’ambiente (bonifiche e riassetto idrogeologico, valorizzazione del paesaggio), 4) di attuare concretamente i principi solidaristici contenuti nella Carta costituzionale (in particolare, gli artt. 2, 3, 38 2° co. Cost), attribuendo un reddito a chi non ne possiede. La residualità del reddito di cittadinanza rispetto al preminente reddito da lavoro sociale – da corrispondersi solo nel caso di impossibilità a lavorare – sarebbe dunque compensata dal conseguimento degli obiettivi su indicati, il cui insieme creerebbe nel tempo le condizioni per a) l’auspicata codifica del diritto, incondizionato, b) la sua estensione a coloro che sono privi di reddito, c) la corresponsione del reddito in misura adeguata “alle loro esigenze di vita” (art,. 38, 2° co. Cost.). Sul piano della fattibilità, la corresponsione del reddito di cittadinanza ai residenti in Sardegna, attraverso un apposito fondo da costituirsi nel bilancio regionale, sarebbe senz’altro possibile, considerato che:

1. le entrate previste per il 2014 ammontano a circa 7,4 miliardi euro; che gli impegni più consistenti di spesa sono c. 3,4 miliardi per la spesa sanitaria, 1,8 miliardi per il funzionamento della macchina regionale, c. 580 milioni quale Fondo unico per gli enti locali, sicché le risorse utilizzabili, non considerando i vincoli del patto di stabilità (la Giunta regionale potrebbe però, ai sensi dell’art. 51 Statuto speciale per la Sardegna, ritenendolo “manifestamente dannoso all’Isola”, chiederne la sospensione al Governo della Repubblica”) , non supererebbero 1,6 miliardi di euro;
2. sarebbe possibile integrare detta somma, in quanto “Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.” (art. 119 Cost)
3. la creazione di nuovo lavoro, il cui costo – ipotizzando la corresponsione di 600 euro mensili (7200 annui – per due, tre giorni di lavoro la settimana) per i 127.000 disoccupati – sarebbe di 914 milioni di euro, e renderebbe così disponibili 586 milioni di euro per l’attribuzione del reddito di cittadinanza;
4. la somma dianzi indicata consentirebbe l’attribuzione di un assegno di 300 euro mensili (3600 euro per 12 mesi) a oltre 162.000 residenti;
5. sul piano della competenza, l’art. 4, lettera h) dello Statuto speciale per la Sardegna prevede, “nei limiti […] dei principi stabiliti dalle leggi dello Stato,” che la Regione possa emanare “norme legislative” in materia di “assistenza e beneficienza pubblica”.
La scelta di corrispondere un tale reddito comporta naturalmente l’esclusione di altre scelte di spesa, che non significa però voler trascurare i bisogni connessi, ma soddisfarli in altro modo attraverso il nuovo lavoro sociale. Opere pubbliche non complesse, ad esempio, potrebbero essere eseguite non più attraverso appalti (costosissimi e oggetto di appetiti lobbistici), ma direttamente dai lavoratori sociali, adeguatamente formati. La sola spesa (800 milioni di euro) programmata nella finanziaria 2014 dall’attuale Giunta regionale per il completamento della strada Sassari-Olbia sarebbe sufficiente ad assicurare il reddito di cittadinanza per tutti i sardi indigenti. Anche l’insegnamento della lingua sarda (5 milioni di euro per tre anni) potrebbe essere garantito in altro modo, attraverso il lavoro anzidetto. La forza e le pressioni di lobbies e clientele sono da sempre uno degli ostacoli più difficili per superare, condizionando fortemente le scelte politiche e il destino delle comunità.

4 Commenti a “Reddito di cittadinanza: è possibile in Sardegna?”

  1. Gianfranco Sabattini scrive:

    Personalmente non mancherò mai d’insistere sulla necessità che si tenga sempre distinto il concetto di reddito minimo garantito da quello di reddito di cittadinanza. I due concetti sono riconducibili a logiche diverse: il reddito minimo grantito alla logica del welfare State tradizionale, che considera ogni forma di “sostegno economico” delle persone come “assistenza”; il reddito di cittadinanza mira al superamento del welfare State, in quanto concepito non come forma di assistenza, ma come diritto di ogni persona, nata all’interno del sistema sociale del quale è parte, ad un “dividendo sociale” di uguale importo e slegato da ogni obblido riguardo alla sua destinazione. Quest’ultimo apsetto del reddito di cittadinanza assume un “significato perticolare”, in quanto se il percettore fosse obbligato a restituire qualcosa a compenso del reddito di cittadinanza che riceve signifcherebbe legare tale forma di reddito ai rapporti di produzione propri del capitalismo. Con il reddito di cittadinanza, perciò, una volta accolto, si va oltre i reali rapporti di produziopne e distributivi propri del capitalismo. Un problema interessante che si dovrà risolvere con l’introdizione del “RdC” è quello del suo finanziamento; problema, questo, che all’interno della logica dell’attuale welfare, risulta di impossibile soluzione. Sulle forme di finanziamente (non del reddito minimo grantito, ma del “RdC”) sarà utile un approfondimento, che potrà essere affronatao in un prossimo articolo

  2. Giovanni Nuscis scrive:

    Ciò che più sta a cuore, e caratterizza la proposta, è l’anteposizione del “lavoro di cittadinanza” finalizzato alla piena occupazione (con creazione diretta di posti lavoro attraverso progetti locali) sia al reddito di cittadinanza (universale ma forse, tornando a riflettere sul punto, discutibile nella sua estensione incondizionata a prescindere dalla possidenza reddituale, e comunque ora improponibile), sia al reddito minimo garantito inevitabilmente condizionato alla difficoltà, anche momentanea, di dare un apporto lavorativo. Ridistribuzione della ricchezza, nuovo lavoro, contenimento della povertà, sviluppo settoriale e infrastrutturale nei territori, incremento della capacità di spesa sarebbero come minimo presupposti per una ripartenza economica, posto che senza consumatori è difficile ipotizzare una ritrovata produttività legata a una domanda reale di beni e servizi.

  3. marinella atzeni scrive:

    ma e possibile sapere quali comuni aderiscono?

  4. Nieddu Giovanni Antonio scrive:

    Oggi 15/Marzo/2016, chiedo se possibile sapere se in Italia alcune regioni il disocupato o il precario percepiscono il reddito di dignita minimo , sotto la soglia sociale ? Vi ringrazio

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