Ritorno a Haifa e Umm Saad: le due storie di Ghassan Kanafani sospese tra i sogni traditi e la fiducia nel futuro del popolo palestinese

29 Ottobre 2025

[Mattia Lasio]

Dentro ogni parola si celano sentimenti e sensazioni che vanno al di là di una comprensione immediata.

Ci sono parole, soprattutto in certi casi, che esprimono tormenti, speranze, sofferenze che non possono essere categorizzate e tantomeno spiegate superficialmente.

Sono parole preziose e uniche, così come coloro che le adoperano in una maniera differente da ciò che si fa solitamente. Lo scrittore palestinese Ghassan Kanafani, morto a soli trentasei anni in Libano nel 1972 a causa di un attentato israeliano, era tra questi e ogni sua opera testimonia appieno cosa significasse per lui la letteratura. Non semplicemente trame ben  ideate, un lessico selezionato e una struttura narrativa solida: la sua scrittura era molto di più, era e ancora oggi è una scrittura facente parte della letteratura come mezzo di resistenza, letteratura come speranza di un reale cambiamento della società nella quale si vive.

A dimostrazione di ciò ci sono due sue opere, tra le più significative, intitolate ‘’Ritorno a Haifa’’ e Umm Saad apparse per la prima volta in Italia nel 1985 tradotte da Isabella Camera d’Afflitto e ripubblicate anni dopo dalla casa editrice Edizioni Lavoro. Due opere risalenti al 1969, brevi ma di un’intensità lirica notevole. Due opere militanti unite dal testimoniare le profonde malinconie del popolo palestinese e il logorante dolore dopo la grande catastrofe della Nakba del 1948. Kanafani quella grande catastrofe l’ha vista con i propri occhi e vissuta visceralmente sulla propria pelle in quanto, dopo la proclamazione da parte di Ben Gurion dello Stato di Israele nel 1948, fu costretto a lasciare la Palestina per trasferirsi in Libano, successivamente andò alla volta della Siria e del Kuwait per poi tornare in Libano dove terminò prematura il proprio percorso terreno insieme alla giovanissima nipote Lamis, a cui dedicò la struggente fiaba ”La piccola lanterna”, deceduta come suo zio l’8 luglio del 1972 in seguito all’attentato a causa di cui persero la vita a  Beirut.

L’autore di ‘’Uomini sotto il sole’’, considerata unanimemente come una delle pietre miliari della letteratura palestinese, in ‘’Ritorno a Haifa ambienta le vicende narrate nel 1967 anno della Guerra dei Sei Giorni andata in scena tra i 5 e il 10 giugno e che vide contrapposti Israele e le nazioni confinanti dell’Egitto, della Siria e della Giordania. I protagonisti dell’opera sono Said e Safiya, marito e moglie, che a distanza di quasi vent’anni dal 21 aprile del 1948 – data per loro drammatica nella quale furono costretti ad abbandonare la propria città ovvero Haifa a causa dell’inizio della Nakba – decidono di partire da Ramallah, città palestinese situata in Cisgiordania, per vedere le condizioni di quella che un tempo era la loro casa. Una scelta estremamente sofferta in quanto tornare a Haifa vuol dire anche ricordare il loro figlio disperso ovvero Khaldùn, che proprio il giorno in cui furono costretti ad andare via compiva cinque mesi. È una ferita troppo profonda per essere dimenticata, un dolore con cui entrambi fanno i conti quotidianamente e per cui si sentono responsabili. Un dolore che esploderà nel momento in cui la nuova proprietaria della casa, una donna ebrea polacca di nome Miriam sopravvissuta ad Auschwitz, rivelerà a Said di avere adottato proprio diciannove anni prima un ragazzo di nome Dov.

Un ragazzo somigliante tantissimo a Said e che si verrà a scoprire essere proprio suo figlio Khaldùn il quale si pensava fosse stato ucciso o comunque fosse andato disperso. Il momento dell’incontro tanto atteso e sperato tra il figlio ritrovato, Said e Safiya è tutto fuorché felice e riparatore: Said e suo figlio hanno delle visioni completamente contrapposte, letteralmente agli antipodi e inconciliabili in quanto il giovane è diventato uno dei membri dell’esercito di Israele. Al contempo Khaldùn non accetta le giustificazioni del padre e della madre sostenendo che in tutti quegli anni avrebbero dovuto fare qualcosa di concreto per ritrovarlo. Sia Said che Khaldùn hanno un carattere risoluto, né da una parte né dall’altra c’è la possibilità di aprire un dialogo e il loro essersi brevementi ritrovati altro non è che l’amaro epilogo di un destino ingiusto e arcigno.

Questo profondo senso di amarezza, e in parte anche di incomunicabilità tra due persone, risalta anche in ‘’Umm Saad’’ – che tradotto letteralmente significa ”la madre di Saad” – dove però un barlume di speranza traspare, seppur in minima parte. La protagonista dell’opera è, per l’appunto, la madre di Saad ovvero un giovane palestinese andato a far parte dei fedayin, i guerriglieri palestinesi impegnati nella lotta per la nascita di uno Stato sovrano palestinese. A spiegare cosa rappresenta la figura della madre del giovane fedayin è Kanafani stesso nella dedica iniziale: «la sua voce, per me, è sempre stata la voce di quella classe palestinese che ha pagato caro il prezzo della sconfitta, e che si schiera ora, sotto l’angusto tetto della miseria, in prima fila nella battaglia, e paga, e continua a pagare più di tutti».

La protagonista è una donna di grande dignità e fierezza, che vive nel campo profughi di Burj, e che tutti i giorni fa i conti non solo con l’amarezza lacerante di dover vivere in un contesto estremamente precario ma con l’angoscia di perdere suo figlio maggiore Saad diventato un fedayin.

A lei si devono alcune delle riflessioni più significative dell’opera come, ad esempio, quella sulle prigioni. «Ce ne sono di ogni genere, di ogni genere!», afferma. «È una prigione il campo, è una prigione la tua casa, la strada e gli occhi della gente. È una prigione la nostra età e anche gli ultimi vent’anni». Il dolore per la situazione di totale incertezza in cui si trova suo malgrado viene espresso da un flusso di coscienza che testimonia appieno la sofferenza causata dalla nakba. «Voglio vivere per rivederla la Palestina! Non voglio morire qui, nel fango e nel luridume. Lo capisci questo ragazzo? Tu sai come si scrivono le cose, io non sono mai andata a scuola in vita mia, ma tutti e due sentiamo le stesse cose».

Proprio così, sentire nel profondo del proprio animo lo stesso dolore lacerante per una terra in cui non si ha la possibilità di vivere e costruire il proprio domani. Un dolore che accomuna da sempre generazioni di palestinesi , vittime di chi della ferocia ha fatto il proprio tratto distintivo così come di chi non ha dato, e continua a non dare, ascolto al loro sogno di libertà.

Il sogno che, nonostante tutto, continuano a coltivare nel proprio cuore con fiducia incrollabile. Il sogno di un nuovo inizio dove veder germogliare il seme della speranza.

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