Sardegna-Lombardia: l’importanza di una differenza

4 Giugno 2020
[Andria Pili]

Ospitiamo l’intervento di Andria Pili sulle relazioni tra Lombardia e Sardegna e le dichiarazioni del sindaco di Milano Beppe Sala.

Negli ultimi due mesi e mezzo di contrasto alla pandemia, un certo nazionalismo italiano è riemerso, speculare alla nuova messa in luce delle differenze tra Regioni, sia per tassi di contagio e numero di morti che nel potere politico ed economico reale di cui dispongono. Retorica nazionalista e linguaggio militaresco, ostilità verso le autonomie regionali, volontà di ricentralizzare le competenze in capo allo Stato centrale. All’inizio e al termine del periodo in oggetto si è posta anche l’attenzione sulle relazioni tra Lombardia e Sardegna: ai primi di marzo, in vista dell’applicazione di norme speciali nella regione più colpita dal Covid-19, per sfuggire a esse, dei cittadini lì residenti sono giunti nelle loro seconde case nell’isola; a fine maggio, prossima la riapertura della circolazione interregionale, il sindaco milanese Beppe Sala ha inveito contro la proposta di “passaporto sanitario” del presidente sardo Christian Solinas, inaugurando una serie di dichiarazioni antisarde sui media, da parte di personaggi più o meno noti. In entrambe le occasioni, una parte dell’opinione pubblica sarda ha manifestato un risentimento verso i lombardi; dall’altra parte c’è addirittura stato chi ha ipotizzato l’esistenza di un compiacimento per la tragica situazione sofferta.

In Sardegna si è probabilmente trattato di una reazione indignata di fronte a un presunto privilegio di “continentali” facoltosi, non curanti della salute dei sardi. La riapertura incondizionata di tutte le regioni, a prescindere dal differente tasso di contagio, decisa dal governo e la riaffermazione della gerarchia costituzionale delle competenze contro la Regione Sardegna da parte del ministro Boccia, sono parse a molti come segni della sudditanza dell’esecutivo verso le istanze della regione economicamente più ricca dello Stato. Ci sono pochi dubbi sul fatto che la scelta migliore per tutelare il diritto alla salute dei sardi sarebbe stata quella di porre dei limiti all’accesso di individui attualmente residenti nelle regioni epicentro della pandemia (ovviamente a prescindere dall’etnia o nazionalità); non a caso è quanto hanno scelto di fare alcuni Stati indipendenti nei confronti dell’Italia. Il diritto alla salute è stato compresso o meno, in nome di altri diritti costituzionali, per via di ragioni politiche.

In Lombardia, a mio parere, prevalgono sentimenti vittimistici, dati dallo smarrimento di fronte alla smentita della propria “superiorità” che gli veniva dalla posizione di regione più ricca dello Stato e da un razzismo antisardo diffuso nel senso comune, a cui non sfuggono evidentemente anche persone che, invece, avrebbero tutti gli strumenti intellettuali per capire la gravità di certe esternazioni.

Credo che al grave razzismo antisardo e allo sterile risentimento antilombardo si sia risposto con una forma di antirazzismo moralistico. Piuttosto che evidenziare l’importanza – per comprenderne la genesi e la permanenza – della differenza strutturale socioeconomica tra Lombardia e Sardegna e la correlata disparità nel potere politico in seno allo Stato unitario, si preferisce far leva su un unitarismo astratto sia “nazionale” italiano che di classe. Penso, invece, che sia possibile superare entrambi gli atteggiamenti lottando per una reale uguaglianza tra sardi e lombardi, ovvero lottando per l’emancipazione dei primi dalla subalternità, la cui base è il sottosviluppo economico del contesto in cui vivono.

Le dichiarazioni di Sala sono state emblematiche: la velata minaccia (“me ne ricorderò”) contro il passaporto sanitario rivela la convinzione di poter esercitare un potere economico da usare a danno dei sardi i quali, arretrati incapaci di sfruttare il proprio territorio per sviluppare un settore turistico (“il turismo in Sardegna è stato, almeno in parte, un’invenzione dei milanesi”) non potrebbero sopravvivere senza la benevolenza dei lombardi. Tali parole si comprendono solo guardando al rilevante ruolo giocato dalla regione nel settore turistico isolano: tra le seconde case in Sardegna, il 49% appartiene a sardi, il 26.8% a famiglie del Nord Italia, di cui oltre la metà proviene dalla Lombardia, il 14% da sola (Alvarez Leon, Cappai 2011); la stessa è la seconda area generatrice di flussi turistici verso la Sardegna nel 2019 (dati SSEO 2020).

Ma come è nata e si è evoluta la disparità tra le due regioni? Osservando il PIL pro capite regionale tra il 1871 e il 2011 si può notare come, fatto 1 quello italiano, esso è rimasto 0.77 per la Sardegna ed è passato da 1.14 a 1.29 per la Lombardia (Felice 2015). Il distacco è dunque più ampio oggi che all’alba dell’Unità d’Italia. Tuttavia, esso era già preesistente a causa della maggiore dotazione di capitale umano, risorse idriche, infrastrutture, della differente storia economica e istituzionale e della propria collocazione geografica. Tuttavia, non vi è dubbio che il sottosviluppo della Sardegna sia stato utilizzato a profitto del capitale settentrionale e a rendita della classe dirigente sarda, entro la cornice istituzionale dello Stato unitario, nella fase liberale e fascista quanto in quella repubblicana e autonomista, mantenendo istituzioni ostili allo sviluppo economico. I vari governi centrali con le loro scelte e obiettivi di politica economica hanno avuto un ruolo determinante nello scandire le fasi del divario tra Sardegna e Nord Italia: durante la grande divergenza tra il 1891 e il 1951 (in cui la Sardegna passò da 0.97 a 0.82 e la Lombardia da 1.14 a 1.53), l’interesse principale dei governi italiani era diretto – per esigenze belliche (guerre coloniali e intervento nei conflitti mondiali) oltre che dall’obiettivo di fare dell’Italia una potenza economica, al passo con gli altri Paesi europei – al sostegno dell’industria del Nord Ovest. Il governo era catturato dagli interessi borghesi di quest’area e da quelli agrari nel Sud, riuniti nel protezionismo.

Durante il fascismo poco o nulla si fece per l’industrializzazione e il miglioramento agricolo di Sud e isole, per non toccare il potere agrario. La politica economica fascista (rivalutazione, battaglia del grano, autarchia) contribuì a conservare gli assetti estrattivi agrari nel Sud, all’ulteriore sviluppo della manifattura settentrionale a detrimento dell’agricoltura a più alto valore aggiunto di Sardegna e Meridione. La politica economica italiana interruppe per due volte un percorso di crescita economica e sviluppo di un’imprenditoria sarda: con lo shock determinato dall’inizio del protezionismo prima (1887-88, guerra doganale con la Francia) e con l’ingresso nella Grande Guerra successivamente. Il periodo di massima convergenza e crescita media annuale (1951-1971) – in cui la Sardegna passò da 0.63 a 0.85, mentre la Lombardia da 1.53 a 1.36 – coincise con l’impegno dei governi della Repubblica Italiana per la riforma agraria e l’industrializzazione del Sud con l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno. Il modello seguito, coerentemente con il pensiero dominante all’epoca, fu quello di calare dall’alto dei poli di sviluppo della petrolchimica.

Questa modalità di sviluppo industriale passivo – su impulso di un capitale privato esterno (in particolar modo le lombarde SIR di Rovelli e Saras di Moratti) foraggiato da contributi pubblici e credito a condizioni di favore e massicci trasferimenti esterni – non ha incrementato la nostra produttività endogena, essendo esterna alle logiche delle imprese sul territorio. Così, essendo il reddito disponibile superiore a quanto il sistema economico sardo poteva produrre, i consumi hanno alimentato un consistente deficit commerciale, in assenza di un crescente export capace di fare da contrappeso alle maggiori importazioni. Ancora oggi, come conseguenza di quella politica, la bilancia commerciale dipende in larga parte dai prodotti della petrolchimica.

Tra il 1971 e il 2011, sia la Sardegna (da 0.85 a 0.77) che la Lombardia (da 1.36 a 1.29) hanno ridotto la propria percentuale di PIL in rapporto alla media italiana. La nuova fase aperta dalla crisi petrolifera (1973-1979), in entrambe le regioni, ha provocato dei cambiamenti importanti. In Sardegna – negli anni ’80 – si è assistito alla ristrutturazione industriale, con il capitale pubblico in azione per rimpiazzare il capitale privato. D’ora in poi, l’afflusso di spesa esterna verterà sul finanziamento di spesa corrente, generando quindi una “crescita dipendente” dei redditi e dei livelli di consumo senza alcuna corrispondenza con la produttività interna. Ai Piani di Rinascita hanno fatto seguito – in particolare tra anni’90 e 2000 – la nuova programmazione regionale, i fondi europei. Nella penisola il Nord-Ovest italiano il capitale avviò a sua volta una ristrutturazione, delocalizzando per ridurre la pressione sindacale e accrescere la flessibilità della forza lavoro; per contro, acquistò maggiore importanza l’area Nord-Est-Centro.

Nella nostra isola, dunque, la convergenza si è esaurita una volta venuto meno il massiccio intervento statale, senza creare le basi di uno sviluppo endogeno bensì – al meglio – una modernizzazione passiva (Felice, Vasta 2014), i cui benefici (come la convergenza per quanto riguarda la speranza di vita e il tasso di alfabetismo – Felice 2015) pesano sempre meno rispetto ai costi (un sistema economico debole; una classe politica-clientelare con funzione di mediazione).

Tra i mali riconducibili al sottosviluppo vi sono l’alta dispersione scolastica, il basso tasso di laureati, alto tasso di disoccupazione totale e giovanile, peso ridotto dei settori più avanzati. La differenza con la Lombardia in questo è nota, possiamo osservarla in particolarmente nel dato sulla mobilità sociale: su 110 province, le 8 sarde sono tra le ultime 25 dello Stato; le 12 lombarde sono tra le prime 30, ben 6 tra le prime 11 (Acciari, Polo, Violante 2019). Chi nasce in una regione sottosviluppata come la nostra, insomma, ha meno opportunità. Non a caso, la Lombardia è la regione che guadagna più immigrati qualificati nei flussi migratori da Sud e Isole al Nord, mentre difficilmente avviene il contrario. Per quanto l’emigrazione giovanile qualificata verso l’estero sia un fenomeno sempre più esteso in ogni regione, la Lombardia riceve un flusso di emigrati dalle altre aree dello Stato tale da compensare la “fuga” di una parte dei propri giovani (Istat 2019), mentre la stessa cosa non avviene né nella nostra isola né al Sud.

La differenza non è un’invenzione ideologica, porla in evidenza non si può derubricare a pericoloso pretesto identitario. Esiste concretamente nel divario di sviluppo, è esistita ed esiste nella disparità di potere economico e politico tra Lombardia e Sardegna, nella diversa capacità di influenzare le scelte politiche governative. Così come non si può bollare come vittimistica l’ennesima reazione all’ennesima dimostrazione di razzismo antisardo. Sicuramente è esistito un razzismo italiano contro i sardi che riemerge periodicamente dall’alba dello Stato unitario (dall’antropologia positiva lombrosiana alla repressione del banditismo nel XIX secolo sino alla vessazione poliziesca e l’ostilità “autoctona” contro i pastori sardi nell’Italia centrale negli anni’80) sino ai giorni nostri, in cui è praticamente diventato senso comune nelle rappresentazioni orientalistiche sui media italiani, pregiudizi di rappresentanti di ogni ordine dello Stato, stereotipo negativo che diversi sardi hanno interiorizzato.

La propria posizione conta. Non è la stessa cosa essere uomo o donna in una società patriarcale, essere bianchi o neri in una società razzista, nascere in una famiglia proletaria piuttosto che in una borghese. Nascere e vivere in un territorio sottosviluppato non è come farlo in uno sviluppato. Essere sardi ed essere lombardi non è, dunque, la stessa cosa. La differenza è esistente, non inventata, analogamente a quanto avviene in altri Stati al cui seno vi sono dei gruppi dominanti e altri dominati. Tale differenza presente e storica non può non avere conseguenze nel senso comune tanto dei lombardi quanto dei sardi. Per questo, combattere tali atteggiamenti deprecabili o dannosi non può essere un problema di tipo morale, in nome di una presunta unità di interessi nazionali italiani, ma ponendosi il problema del superamento di questa disuguaglianza di fatto. Il problema è politico ed economico, riguarda l’attuale collocazione della nostra isola in seno a questo Stato, come in esso il potere è di fatto redistribuito: in tale condizione, come realizzare una reale uguaglianza tra sardi e lombardi? Come far sì che la Sardegna diventi una regione sviluppata? In questo senso, rivendicare la propria appartenenza nazionale sarda non significa difendere la propria diversità etnoculturale in senso esclusivista ma lottare per l’uguaglianza. Penso che la questione sarda chiami in causa il potere e che la sua soluzione passi per un rafforzamento della società sarda per superare la subalternità che la affligge, nella molteplice forma politica, economica, culturale nei confronti di un centro localizzato nel Nord dello Stato entro cui siamo oggi collocati.

L’italianità dei sardi è la conseguenza della scelta politica della borghesia sarda ottocentesca e del processo di nazionalizzazione statale; una contingenza, per un territorio non necessario alla costruzione o invenzione della nazione italiana. La sardità, invece, è una condizione, di cui si può essere più o meno coscienti politicamente, ma che prescinde dall’appartenenza a uno Stato-Nazione qualsiasi. Con ciò non voglio negare il conflitto interno alla società sarda ma riconoscere l’esistenza di una questione nazionale e la necessità, per un movimento che ambisca a rappresentare le istanze dei lavoratori, della maggioranza sociale sarda, di condurre la liberazione sociale insieme alla liberazione nazionale. Non possiamo porre la questione tra parentesi in nome dell’unità di classe tra lavoratori dei due territori. Dovrebbe spettare ai lavoratori sardi emanciparsi, anche contro la propria classe dirigente la cui responsabilità nel sottosviluppo sardo, piuttosto che smentire l’esistenza di una questione nazionale, mostra quanto essa sia intrecciata con la questione sociale.

Italianità non è internazionalismo. La solidarietà tra i proletari di tutti i Paesi non può limitarsi ai confini statali; né il nostro attuale Stato può essere considerato la base per una costruzione socialista, che– data l’attuale fase storico-economica – sarebbe auspicabile e possibile realizzare in un ambito politico europeo, per la cui realizzazione gli attuali Stati-Nazione sono un serio ostacolo. Proprio per questo gli indipendentismi europei possono svolgere un ruolo progressivo, superando l’idea di sovranità statale sui popoli in nome di una costruzione politica realmente democratica, federalista, internazionale, multiculturale. Ovviamente, interesse dei lavoratori europei è che la federazione europea sia fatta su basi cooperative e a difesa dei diritti sociali, contro un capitale sempre più internazionale e prospero nell’attuale Europa degli Stati e della competizione fiscale.

Contro ogni essenzialismo e nazionalismo reazionario, non credo che tutti i sardi in quanto tali abbiano un interesse a lottare per l’emancipazione della propria comunità, né che la lotta per l’indipendenza nazionale possa concludersi necessariamente in favore della maggioranza sociale sarda. Per questo, mi sento più vicino a un lavoratore lombardo che a un padrone sardo. Allo stesso tempo, mi sento più vicino a un lavoratore còrso, galiziano, basco, gallese che a un lavoratore lombardo. Più vicino a tutti quei lavoratori che necessitano di liberarsi dal sottosviluppo economico e dalla marginalità politica. Le attuali minoranze nazionali europee potranno liberarsi dai loro centri politici ed economici statali partendo innanzitutto dalla loro organizzazione autonoma, proiettati verso un progetto politico europeo, senza porsi alle dipendenze di partiti statali, il cui consenso è basato su territori rispondenti a priorità ben diverse.

Riferimenti essenziali

Ivan Alvarez Leon, Alessandra Cappai (Università di Sassari), “Il turismo delle ‘seconde case’ in Sardegna”, 2011

(http://www.inchiestaonline.it/ambiente/il-turismo-delle-%E2%80%9Cseconde-case%E2%80%9D-in-sardegna/. )

Sardinian SocioEconomic Observatory, 2020: http://www.sardinianobservatory.org/2020/05/28/i-turisti-lombardi-in-sardegna-nel-2019-sono-aumentati-del-57-facendo-registrare-quasi-2-milioni-di-presenze-nelle-strutture-ricettive-sarde-dopo-la-germania-la-lombardia-rappresenta-la-2a-area-g/

Emanuele Felice, Ascesa e Declino. Una storia economica d’Italia, Il Mulino 2015. Appendice statistica.

Emanuele Felice, Michelangelo Vasta, “Passive modernization? The new human development index and its components in Italy’s regions (1871-2007)”, in European Review of Economic History, n.19, Oxford University Press (2014), pp.44-66

Paolo Acciari, Alberto Polo, Giovanni L.Violante, “And Yet, It Moves: Intergenerational Mobility in Italy”, IZA Discussion Paper, n°12273, Institute of Labor Economics, Aprile 2019

Report ISTAT sulle migrazioni, dicembre 2019: https://www.istat.it/it/files/2019/12/REPORT_migrazioni_2018.pdf

Sulla storia economica italiana e sarda:

Aldo Accardo, L’isola della rinascita. Cinquant’anni di autonomia della Regione Sardegna, Laterza (1998)

Francesco Atzeni, Riformismo e modernizzazione. Classe dirigente e questione sarda tra Ottocento e Novecento, FrancoAngeli (2000)

Francesco Barbagallo, La questione italiana: il Nord e il Sud dal 1860 a oggi, Laterza (2013)

Gianfranco Bottazzi, Eppur si muove! Saggio sulle peculiarità del processo di modernizzazione in Sardegna, CUEC (1999)

Maria Luisa Di Felice, “La storia economica dalla fusione perfetta alla legislazione speciale (1847-1905)”, in La Sardegna – le Regioni dall’Unità d’Italia ad oggi, Einaudi (1998), pp.289-419

Emanuele Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Il Mulino (2013)

Luciano Marrocu, “Il ventennio fascista” in Storia della Sardegna, vol.II, dal Settecento ad oggi, Laterza (2006), pp.121-133

Pietro Maurandi, “L’avventura economica di un cinquantennio”, in Accardo (1998), pp.265-338

Raffaele Paci, “Sviluppo economico e dipendenza. 1951-1993” in Crescita economica e sistemi produttivi locali in Sardegna. CUEC (1997), pp.35-59

Sandro Ruju, “Societa, economia, politica dal secondo dopoguerra a oggi (1944-98)” in Le Regioni dall’Unità ad Oggi: la Sardegna, Einaudi (1998), pp.775-992

Vera Zamagni, Introduzione alla storia economica d’Italia, Il Mulino (2007)

1 Commento a “Sardegna-Lombardia: l’importanza di una differenza”

  1. Ruolo dello Stato, tentazioni autoritarie, mobilitazioni democratiche e una possibile rivisitazione del concetto di "forze dell'ordine" ~ SardegnaMondo scrive:

    […] È una cornice interpretativa molto ideologica che serve anche a nascondere la cruda realtà di un sottosviluppo economico indotto, dovuto a rapporti di forza tutt’altro che “spontanei” o discendente da meriti peculiari delle regioni più ricche. […]

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