Sardegna per la Palestina

1 Novembre 2015
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Omar Suboh

25 ottobre 2015: questa data rappresenta un momento di svolta per la presenza della Comunità Palestinese in Sardegna. Cagliari, in contemporanea con Sassari, Nuoro, Oristano e Olbia, sono riuscite a coordinarsi e dare vita a un evento fondamentale, che abbiamo deciso di denominare ‘Sardegna per la Palestina’.

La Comunità Palestinese, con il prezioso aiuto degli amici dell’Associazione Ponti e non Muri, hanno unito le loro forze intorno a un nucleo comune, dove al suo interno sono state condensate un insieme di istanze precise, drammaticamente urgenti e imprescindibili, sia da un punto di vista storico, che da un punto di vista politico, e hanno deciso di sfilare tutti insieme, lo stesso giorno e nello stesso momento.

Qui a Cagliari, la partenza era fissata per le 10 e 30, piazza del Carmine il luogo del ritrovo. Un folto gruppo di bandiere palestinesi, accompagnate dalle foto dei ragazzi uccisi durante la cosiddetta Intifada dei coltelli, attira l’attenzione dei passanti, che inevitabilmente non possono evitare l’immensa bandiera con i colori della Palestina fatta cucire appositamente per l’evento, 10 metri di lunghezza per 4 di larghezza.

Uniti sotto un’unica bandiera, abbiamo sfilato lungo le vie del centro cagliaritano. Ogni nostro passo è stato scandito dagli slogan che con grande impatto venivano ripetuti lungo tutto il tragitto verso Piazza Yenne. “Palestina Libera!”, “Palestina vincerà!”, ”Resistenza!”, questi i motti principali. Arrivati presso la colonna militare della piazza, di fronte al Monumento di Carlo Felice, l’enorme bandiera è stata distesa per consentire a tutti i presenti di dare forma e voce, sdraiandosi adagio su di essa, ai caduti nei territori occupati e gridando ad alta voce i motivi della nostra presenza e del nostro dissenso.

Elementi imprescindibili del discorso: fermare l’occupazione israeliana, che per dirla con Ilan Pappé, va chiamata per quello che realmente rappresenta, una colonizzazione a tutti gli effetti; per fermare il genocidio in corso della popolazione civile palestinese; per fermare il regime d’apartheid che relega i palestinesi a minoranza nella propria terra e contro la pulizia etnica promossa sistematicamente dalla violenza sionista; per la liberazione di tutti i prigionieri politici in stato di detenzione nelle carceri israeliane, vittime della cosiddetta detenzione amministrativa, reato che consente l’arresto indiscriminato da parte dei soldati secondo la loro personalissima discrezione, di chiunque non sia fedele alla linea della forza dominante.

Tutti insieme, riuniti per ricordare allo stato israeliano l’esistenza delle risoluzioni ONU, violate impunemente nel ciclo storico che ha inizio dal lontano 1947 e procede nel corso di tutti questi anni, sino ad oggi, di fronte alla sordità della Comunità Internazionale. Il riconoscimento del diritto al ritorno dei palestinesi espulsi dalla propria terra, diritto anche questo sancito dalle dichiarazioni dell’ONU e mai rispettato, ne tanto meno reso attivo dagli organi preposti alla legalità internazionale.

L’insieme delle seguenti istanze, motivi storici della resistenza palestinese nel mondo, sono state accompagnate a un altro elemento determinante, ovvero la richiesta di una Informazione non distorta, non piegata dalle logiche dell’industria culturale sionista, indipendente e reale. In un paese come il nostro, dove le informazioni sono filtrate attraverso il condotto dell’industria metaculturale ebraica (come una sorta di ente metafisico che prescinde dal dato sensibile, dal dato fisico, e dall’alto determina i movimenti del tutto, come un Demiurgo che plasma gli eventi e forgia gli esseri che ne prendono parte), forza onnipervasiva e condizionante, i fatti vengono cancellati.

Assistiamo alla morte del fatto in sé. Viviamo nell’epoca della negazione dell’oggettività di qualsiasi evento dotato di forza autonoma e propria, intrinseca. Questi vengono puntualmente smantellati, prima di essere raccontati, e ricostruiti a uso e consumo della propaganda sionista mondiale. Con quale finalità? Per cambiare la Storia.

Sovvertire l’ordine naturale degli eventi. Fornire al mondo il lieto racconto che, con distinzione dicotomica e manichea, vuole il Bene da una parte (l’ente ebreo, svuotato di tutto il suo dramma storico, e in prima istanza, umano) e il Male (attenzione, non il palestinese, inteso in senso stretto, ma addirittura l’arabo, genericamente e confusamente, per fomentare lo scontro tra civiltà, come di fatto avviene da 20 anni). Dunque, la questione palestinese non può essere ridotta a una delle tante contese che tengono vivo il focolare delle motivazioni politiche di una parte a un’altra contrapposta e alla pari, ma diviene la questione, il punto focale nella quale ruotano intorno ad essa gli equilibri non di un solo paese o continente, ma del mondo intero. La stessa guerra infinita del Medio Oriente non è altro che una precisa conseguenza diretta dell’occupazione sionista e della destabilizzazione sistematica e permanente (l’occupazione risale da molto prima della Guerra dei Sei Giorni del 1967, per la quale secondo la narrazione dominante e giustificazionista dei cosiddetti processi di pace, vorrebbe infatti una Palestina in pace e serena negli anni che precedono questa data, cancellando e annullando tutti i fatti precedenti, e soprattutto il più importante, il fattore scatenante dell’intera contesa, la nakba del 1948) dei territori della Palestina storica.

La Palestina è la nuova Sion. I coloni che insediano Gerusalemme, Hebron ecc. sono guidati da precisi intenti sovversivi (terroristici?), orientati verso una perpetuazione metodica e scientificamente calcolata, della violenza verso la popolazione civile palestinese.

L’ideale che fa da sfondo è il sogno di uno svuotamento di tutti i territori, come conseguenza della trasformazione della Palestina a terra invivibile. Come hanno affermato gli Stati Uniti, dal 2025 infatti, nella Striscia di Gaza sarà impossibile vivere. Necessariamente di fronte a queste emergenze acquista un senso e significato ogni singolo gesto di umanità e sensibilizzazione di ognuno nel mondo. Noam Chomsky nell’ultimo libro scritto con lo storico israeliano Ilan Pappé, “Palestina: Che fare?”, si interroga sul potere del linguaggio, elemento considerato imprescindibile per restituire piena dignità alla questione palestinese e ai palestinesi in prima istanza.

Il linguaggio non è un potere come quello politico, militare, economico e culturale (vedi industria della cultura sionista, media, letteratura, cinema ecc.), ma ne mostra tutti i loro lati oscuri, è in grado di mostrare gli usi di tutti questi poteri. Proprio a questo proposito Ilan Pappé fa un esempio molto pertinente e d’impatto, egli infatti afferma che se tutti fossimo d’accordo che i palestinesi sono oppressi, sarebbe più facile in Occidente comprendere come si sono svolti i fatti, e i palestinesi non sarebbero ridotti all’equazione assiomatica che da come risultato la loro identificazione con il terrorismo. Se il giornalismo mondiale, usasse le categorie giuste e parlasse dei palestinesi come i nativi della propria terra, dei loro diritti e della pulizia etnica subita, oggi guarderemo alla storia del conflitto con occhi molto diversi, e insegneremmo la storia della Palestina all’interno di un capitolo della Storia Coloniale, restituendo alla narrazione il suo reale significato.

Oggi è inaccettabile di fronte ai morti e allo straripare di tutto questo fiume di dolore, assistere allo spettacolo indecoroso dei media occidentali, che continuano a filtrare tutti gli eventi narrati attraverso il condotto della cultura egemonica ebraica, che ci infligge dalla nascita il peccato originale dell’Olocausto ebraico, condizionando di fatto ogni possibile dibattito dal principio, a prescindere da qualsiasi evento accaduto successivamente al dramma della Shoah, ulteriormente strumentalizzate senza nessuna vergogna dal governo di Netanyhu (come nell’ultimo caso, in cui il Gran Mufti di Gerusalemme sarebbe stato il fomentatore dello sterminio e della Soluzione Finale per gli ebrei, e negando a Hitler la piena responsabilità dei fatti successivi che tutti conosciamo). Oggi, Cagliari ha fornito al mondo un grande esempio di civiltà. Come membro della Comunità Palestinese in Sardegna, e sardo-palestinese di seconda generazione (mio padre è nato a Betlemme) ne sono orgoglioso.

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