Sconfiggere la crisi: intervista a Enzo Costa

16 Aprile 2010

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Marco Ligas

Abbiamo parlato spesso della crisi del lavoro che investe la Sardegna. Ne parlano soprattutto i lavoratori che subiscono gli effetti dei licenziamenti e della precarietà. E lottano con caparbietà salendo sui campanili o incatenandosi ai cancelli delle fabbriche. Vogliono delle risposte che garantiscano la continuità dell’occupazione, consapevoli che gli ammortizzatori sociali pur indispensabili non risolvono il problema della precarietà. Abbiamo parlato di questi problemi con Enzo Costa, segretario regionale della Cgil della Sardegna; ne pubblichiamo l’intervista.

Le statistiche sul tasso di disoccupazione, anche in Sardegna, colgono solo una parte della crisi occupazionale. Questo tasso infatti non prende in considerazione chi, perché scoraggiato, non ricerca più un lavoro; vengono sottostimati inoltre aspetti come il ricorso alla cassa integrazione, la sottoccupazione e più in generale la precarietà. Abbiamo un quadro se non preciso almeno orientativo su questi problemi?

Si, lo abbiamo e non è per niente positivo. Se prendiamo in considerazione i numeri forniti dall’istat e dall’inps vediamo che a fronte di 599.000 occupati ci sono 144’000 persone che si dichiarano disponibili a lavorare, il tasso di disoccupazione allargato supera il 22,3%. Nel 2009 abbiamo avuto un aumento delle ore di cassa integrazione del 70,56%  e le persone che usufruiscono di ammortizzatori sociali in deroga sono 11.600. La produzione industriale è fortemente diminuita, si sono ridotti gli ordinativi esteri e la domanda interna. I settori più colpiti sono quelli della chimica e della lavorazione dei metalli. Insomma abbiamo un quadro complessivo preoccupante.

Il Governo continua a varare provvedimenti di contenimento della spesa pubblica (la Scuola è un settore particolarmente colpito, ma è difficile fare graduatorie, si rischia di sottovalutare altri comparti). Diversi economisti sostengono che quando l’industria del Nord attraversa fasi di espansione ne trae vantaggio anche il Sud perché si realizzano piani di sviluppo anche in quell’area del paese. Ma quando il Centro-Nord vive le sue fasi di crisi e di ristrutturazione per il Mezzogiorno non rimane che una politica di sostegno assistenziale. Io aggiungerei che anche questa politica assistenziale richiede prezzi elevatissimi sul piano della mobilitazione dei lavoratori. Davvero non ci sono altre strade per uscire dalla dipendenza?

È molto difficile uscire da questa spirale perché la crisi ha mostrato come non sia possibile un’autoregolamentazione del mercato; lasciato a sé il mercato aumenta le differenze tra le aree ricche e quelle povere. E la Sardegna paga un prezzo elevato, proprio per questo è necessario far prevalere un’idea che assuma la qualità della vita, dei diritti umani, del lavoro innanzitutto, come punti di riferimento di qualsiasi programma di sviluppo.

Ma questa idea stenta a farsi strada sia a livello sindacale che politico, sembra più vicina all’utopia che alla realtà.

Trova molte difficoltà a concretizzarsi soprattutto a livello politico. Il sindacato non può far tutto, non riesce a coprire tutti i vuoti che esistono nella società, insomma non può sostituirsi alla politica. Bisogna capire che corriamo un rischio gravissimo di cui avvertiamo le prime avvisaglie: la desertificazione della nostra isola.

Sono sempre più numerosi coloro che sostengono che bisogna trovare il coraggio di ripensare un modello di sviluppo che chiuda col passato, per intenderci con l’industria petrolchimica e con tutte le iniziative che hanno favorito attività estranee alle caratteristiche dei nostri territori. Il rigetto di queste attività deriva soprattutto dal fatto che non solo non è stato risolto il problema occupativo ma sono stati danneggiati, talvolta in modo irreversibile, il paesaggio e l’ambiente. Esistono a tuo parere le possibilità di una fuoriuscita da questo modello?

Credo che siamo ormai consapevoli che il tipo di sviluppo che c’è stato in Sardegna non solo non ha risolto la questione del lavoro ma ha anche deteriorato l’ambiente. Occorre cambiare. Io però su questa problema ritengo sia necessario essere più obiettivi perché spesso liquidiamo le nostre esperienze con superficialità e in modo parziale. La scelta della petrolchimica fatta negli anni sessanta è stata voluta da tutti, dai sindacati e dai partiti della maggioranza e dell’opposizione. Si pensava allora che la Sardegna potesse liberarsi da un’arretratezza secolare. E nell’avvio del processo di industrializzazione sono stati sottovalutati alcuni aspetti di cui paghiamo oggi le conseguenze: la dipendenza dai paesi produttori delle materie prime e gli effetti che alcune attività industriali provocano sull’ambiente. Non dobbiamo però dimenticare le trasformazioni sociali e culturali che ci sono state nelle nostre comunità. Sono migliorate le condizioni generali di vita dei sardi anche grazie a questo processo, sono cresciuti i livelli di scolarità sebbene siamo sempre indietro alle altre regioni italiane, la stessa condizione delle donne è completamente diversa rispetto al passato. Non intendo giustificare ciò che oggi registriamo come negativo, però guardiamo anche alla parte piena del bicchiere. Se pensiamo ad un processo di sviluppo non possiamo accantonare l’industria, correggiamo ciò che la nostra esperienza ci suggerisce ma non abbandoniamo i processi di industrializzazione.

Gli ammortizzatori sociali sono una soluzione temporanea della crisi. Servono a contenere le difficoltà in cui si trovano migliaia di famiglie. Non è preferibile pensare ad una riconversione del sistema industriale, garantendo nella fase di passaggio un reddito di cittadinanza? E non si potrebbe proporre una politica che favorisca la produzione di energia attraverso l’uso delle fonti rinnovabili?

Considero positivo tutto ciò che può attenuare gli effetti della crisi vissuta da tanti lavoratori. Nelle situazioni più difficili va bene la cassa integrazione e naturalmente va bene anche il reddito di cittadinanza. Ritengo però che questo strumento debba essere sempre accompagnato dall’avvio di attività che coinvolgano i disoccupati nel lavoro. Lasciarli fuori dai processi produttivi non è una scelta costruttiva; anch’essa può determinare insofferenza e senso di inutilità. Per quanto riguarda l’uso delle fonti alternative va bene ma ribadisco quanto ho già detto prima sull’opportunità di non abbandonare i processi di industrializzazione.

In Sardegna, sia a livello sindacale che nelle relazioni con le istituzioni regionali, c’è una unità che spesso appare falsa: non tutti vogliono le stesse cose. Da fastidio partecipare a scioperi generali e trovarsi a fianco rappresentanti della maggioranza. Perché dare credibilità a questa destra che ha forti responsabilità per aver provocato la crisi economica e per non aver fatto niente per il suo superamento?

Guarda, io ritengo che l’aspetto più importante dell’ultimo sciopero generale sia stato la partecipazione non solo dei lavoratori di tutti i comparti ma anche del popolo sardo. Poi succede sempre che gli opportunisti cerchino di cavalcare queste proteste; è un’operazione che viene condotta soprattutto dai rappresentanti della maggioranza, a noi spetta poi il compito di smascherare questi personaggi.

Non mi pare che Cisl e Uil in Sardegna promuovano un’attività sindacale diversa da quella che conducono nazionalmente. A quel livello l’unità si realizza con difficoltà, a volte c’è proprio contrapposizione. In Sardegna invece no, è più remissiva la Cgil o sono più sensibili Cisl e Uil alle rivendicazioni dei lavoratori?

Forse è la gravità della crisi che rende meno tortuoso il processo unitario!

Che cosa vorresti correggere della Cgil  sarda?

Mi piacerebbe un sindacato più inserito nella società, soprattutto nei posti di lavoro. Questo radicamento renderebbe più difficili le incursioni di coloro che si proclamano sostenitori degli interessi dei lavoratori quando invece, nei posti di potere che difendono strenuamente, sono gli artefici delle politiche più sfacciatamente neoliberistiche. Vorrei inoltre un sindacato più giovane, più sensibile al bisogno di superamento di certi residui di burocratismo che ci portiamo appresso da diverso tempo. È l’impegno che abbiamo assunto nell’ultimo congresso.

2 Commenti a “Sconfiggere la crisi: intervista a Enzo Costa”

  1. Angelo Morittu scrive:

    ENZO COSTA: «Non dobbiamo però dimenticare le trasformazioni sociali e culturali che ci sono state nelle nostre comunità. Sono migliorate le condizioni generali di vita dei sardi anche grazie a questo processo, sono cresciuti i livelli di scolarità sebbene siamo sempre indietro alle altre regioni italiane, la stessa condizione delle donne è completamente diversa rispetto al passato. Non intendo giustificare ciò che oggi registriamo come negativo, però guardiamo anche alla parte piena del bicchiere. Se pensiamo ad un processo di sviluppo non possiamo accantonare l’industria, correggiamo ciò che la nostra esperienza ci suggerisce ma non abbandoniamo i processi di industrializzazione.»

    In questa citazione risiede la summa degli errori di valutazione del sindacato, è ingannevole dare all’industrializzazione selvaggia che abbiamo conosciuto in Sardegna i meriti di certi miglioramenti sociali, sarebbe interessante leggere le argomentazioni e dati su cui si fondano queste asserzioni. Nessuno finora ha proposto alternative produttive della nostra industria, nessuno è andato oltre l’affannosa ricerca di nuovi padroni per industrie vecchie.

  2. Enzo Costa scrive:

    Qualsiasi processo di crescita sociale è sempre accompagnato da un processo di crescita economica, lo sviluppo industriale discrimina i paesi più ricchi dai paesi più poveri. Io non ho mai pensato che il modello industriale sardo che la politica delle partecipazioni statali, con tutto quello che si portava appresso, sia il modello giusto per una regione come la nostra. Anche io avrei preferito in un isola dove l’ambiente e la sua qualità rappresentano il bene più prezioso uno sviluppo industriale orientato a settori innovativi, ambientalmente compatibili, di taglia media diffusa nel territorio regionale, collegata al sistema formativo, ma non credo che in quegli anni ci sia stato consentito scegliere. Resto comunque convinto che il processo di industrializzazione che ha interessato la Sardegna abbia contribuito a diffondere una cultura del lavoro industriale (indispensabile per qualsiasi processo di diversificazione e di riconversione), abbia generato buste paga e quindi reddito, abbia frenato il processo emigratorio, abbia favorito l’infrastrutturazione del territorio, abbia in sostanza contribuito alla crescita economica e sociale della Sardegna. Il sindacato non ha mai detto o scritto che il modello attuale va difeso senza avere un idea di sviluppo futuro che faccia tesoro dei grandi limiti dell’attuale modello, dobbiamo difendere e migliorare l’esistente e costruire contemporaneamente una valida alternativa, per fare questo dobbiamo sviluppare tutti i settori produttivi.

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