Siamo marea e lo siamo sempre stat*

16 Ottobre 2019
[Marirosa Pili]

Il femminismo del nuovo millennio è quello dell’intersezionalità, che è la quarta fase dopo l’emancipazione, l’autodeterminazione e l’autocoscienza. L’intersezionalità raccoglie differenze, assume infiniti punti di vista, è la pars costruens: orienta la lotta femminista e rappresenta un grande invito all’unità. Abbiamo intervistato Benedetta Pintus, coautrice insieme a Beatrice Da Vela, di Siamo marea. Come orientarsi nella rivoluzione femminista, Villaggio Maori ed., Catania, 2019.

Benedetta è nata a Cagliari nel 1981, è giornalista professionista, ha lavorato per anni per il Gruppo Espresso e la Repubblica, è formatrice specializzata in questioni di genere, attivista del femminismo intersezionale e del transfemminismo, fondatrice del progetto femminista online Pasionaria.it. C’era l’esigenza di un lavoro così, che assemblasse e creasse una memoria storica del femminismo, spesso interrotta o censurata, che creasse una linea di continuità nel tempo, con divergenze e affinità tra le prime due ondate e noi. Lea Melandri, Giorgia Serughetti sono solo alcune delle tante voci intervistate nel libro.

Per Lea Melandri, il femminismo è ancora la messa in discussione radicale dell’esistente, consentita e nata anche dal separatismo e dalle dinamiche del femminismo della differenza, che hanno permesso la formazione di un pensiero antagonista e hanno rovesciato la forma semplicemente integrativa della donna in una società a misura di uomo. Il privato è politico e nelle pratiche dell’insubordinazione e nella politica di apertura del femminismo di Non una di meno, Melandri trova continuità e linfa vitale. Che rapporto c’è tra il femminismo degli anni Settanta e quello degli anni Novanta e Duemila?

Un rapporto non sempre facile, ma fondamentale, perché ci fa crescere. È fisiologico, in qualsiasi ambito, che le nuove generazioni si scontrino con quelle precedenti, e così avviene anche nel femminismo, per fortuna, altrimenti non ci sarebbe un’evoluzione. Ma il movimento femminista è sempre stato carsico e plurale, trovo quindi una generalizzazione poco realistica quella dello scontro generazionale tout court. Se è vero che le nuove ondate femministe hanno preso vita anche grazie alla messa in discussione di quelle precedenti, credo che ora come ora i nodi più difficili da sciogliere del femminismo non siano dovuti tanto all’età, ma alle diverse posizioni politiche su alcuni temi cruciali, come la prostituzione e il sex work, la gestazione per altri e la questione trans. Il dibattito è aperto e non penso che il nostro obiettivo sia quello di trovare risposte definitive, ma di mantenere vivo il dialogo e il confronto, quando la volontà di rispettarsi è reciproca. Spesso gli attriti sono dovuti alla mancanza di ascolto tra diverse generazioni e tra gruppi femministi con pratiche diverse, che si conoscono ben poco e talvolta hanno anche poca voglia di conoscersi. Ad esempio, ho sentito tante giovani attiviste condannare e denigrare il separatismo, senza sapere bene perché sia nato e come sia stato praticato; così come ho visto attiviste di lunga data trattare con sufficienza istanze del femminismo contemporaneo che non comprendevano. Le differenze sempre ci sono state e sempre ci saranno, perciò fare rete sulle basi che condividiamo e sui tanti obiettivi comuni che, come afferma Melandri, danno continuità nel tempo e nello spazio al pensare e all’agire femminista, rimane, a mio avviso, la chiave per tenere viva la lotta antisessista, ognuna con le proprie pratiche e i propri punti di forza.

L’intersezionalità è una pratica in divenire, che nella sua dinamicità trova sempre rinnovata energia. La donna bianca e femminista si siede nel composito cerchio dell’assemblea orizzontale, prende coscienza del suo privilegio e lo vede dall’esterno. Il femminismo diventa plurale e queer, come?

Il femminismo ha iniziato a diventare plurale a partire dalla fine degli anni Settanta, grazie alle voci di chi non si sentiva rappresentata dal femminismo mainstream, quello più diffuso e visibile, che sembrava essere portato avanti solo da donne occidentali, borghesi ed eterosessuali. Nuove prospettive cominciarono ad arricchire il pensiero femminista, a partire dalle esperienze delle donne lesbiche, delle donne di colore, delle donne che vivevano in quello che veniva ancora chiamato “terzo mondo”. Queste soggettività non subivano e non subiscono solo la discriminazione sessista, ma anche l’omofobia, il razzismo, il colonialismo, il classismo, anche da parte di altre donne: la loro condizione, dunque, era ed è differente da quella della maggior parte delle donne bianche europee e statunitensi, che hanno più privilegi nonostante l’oppressione comune. Da qui la necessità di un nuovo punto di vista, quello intersezionale, introdotto in sociologia negli anni Ottanta proprio a partire dall’ambito della violenza: il genere femminile non è l’unico elemento che definisce una donna ed è fondamentale considerare anche tutti gli altri aspetti che compongono la nostra identità per capire e combattere tutte le oppressioni che viviamo e che si alimentano tra loro. Sessismo e omotransfobia, ad esempio, sono due facce della stessa oppressione, basata su ruoli di genere stereotipati e discriminatori: ragionare per compartimenti stagni non ci porta a nulla ed è insensato che il femminismo e il movimento di liberazione Lgbtq+ non condividano le proprie istanze. Mettersi in ascolto, riconoscere i propri privilegi e abbracciare punti di vista diversi comporta una messa in discussione continua di se stess* e delle proprie pratiche, ed è quindi compito difficilissimo, ma imprescindibile. Il patriarcato, inteso come sistema di potere e violenza che si articola in ogni ambito della nostra società, è un mostro dalle tante teste che si può combattere solo unendo le forze.

Il femminismo della quarta ondata è antiliberista, antirazzista, antimilitarista, Non una di meno ha un piano che si apre con una critica alla lingua italiana sessuata. Con le sue pratiche insubordinative lo sciopero dell’otto marzo diventa pratica di massa, le donne e la comunità Lgbt+ sono agenti di un rovesciamento e mai più vittime. Nel vostro libro sono riportati diversi esempi di sovversione politica interni alle società in cui viviamo, quali per te i più forti e significativi?

Proprio perché, come dicevo, il nemico è un mostro dalle tante teste, sono convinta che sia significativa e importante ogni sovversione alla cultura patriarcale, dalla lotta per il diritto alla casa a quella per il riconoscimento del genere non binario; dall’antispecismo all’antimilitarismo, che sento particolarmente vicino perché sono nata e cresciuta in una terra militarizzata come la Sardegna. Nel libro abbiamo deciso di affiancare alla teoria le pratiche, attraverso le interviste a persone attiviste e militanti in diversi ambiti sociali e politici, per raccontare che è solo grazie a chi si ribella alle oppressioni del sistema ogni giorno, nella sua piccola realtà quotidiana, che le cose cambiano e possono cambiare. Credo che dovremmo esserne più consapevoli e lavorare maggiormente sulle alleanze tra le lotte, che hanno spesso molti più punti in comune di quanto possiamo immaginare.

L’apertura porta con sé dei rischi e dei potenziali cavalli di Troia, come difendersi da strumentalizzazioni politiche, washing e pink marketing che ci vogliono di nuovo vittime?

Oggi più che mai, difendersi dalle strumentalizzazioni e dalle normalizzazioni dovrebbe essere un aspetto cruciale. L’attuale ondata femminista è stata la prima ad avvalersi in modo sistematico e strategico delle potenzialità di internet e dei social media, che ci hanno permesso di arrivare a più persone e di organizzarci meglio tra territori, anche a livello internazionale. D’altra parte, però, la comunicazione attraverso questi strumenti costringe a una maggiore semplicità dei messaggi e velocità di pubblicazione, oltre che all’utilizzo massiccio di immagini e video: questi sono aspetti che spesso impoveriscono la qualità delle interazioni, puntando tutto sulla visibilità e togliendo spazio all’approfondimento. Il marketing e spesso anche associazioni e istituzioni, si fermano all’involucro, attingendo dalla comunicazione femminista più efficace e riciclando in modo vuoto e superficiale slogan e simboli per vendere (pink marketing o femvertising) oppure per un tornaconto di immagine personale o aziendale (feminist washing): è questo l’elemento che va subito riconosciuto per difendersi. Chiedersi: cosa c’è dietro? Questa comunicazione apparentemente femminista che scopo ha? Ha davvero un intento di cambiamento e di rivoluzione del sistema per migliorare la vita delle persone o è solo uno specchietto per le allodole? Il femminismo è politica, non marketing. Politica – come scriviamo nel libro – nel suo senso più profondo: quello di occuparsi delle persone riunite in una comunità sociale e della cultura alla base del vivere comune, per eliminare iniquità e discriminazioni. Per me una delle sfide del tempo presente è riuscire a continuare a incidere nel sistema culturale arrivando al maggior numero di persone, senza rinunciare alla complessità e senza banalizzare contenuti e valori alla base della nostra lotta.

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