Spike Lee e l’immagine corrotta dell’Occidente

1 Luglio 2007

Sergio Scavio

New York, specchio e maschera del ‘900, dopo la caduta delle torri gemelle si presenta sempre più come crocevia iconico. Da simulacro solido e certo della schizofrenia americana si trasforma in monumento alla deflagrazione dei paradigmi occidentali, perlomeno per quelli che riguardano l’immagine. Probabilmente sta tutto qui il vero, sottile successo della battaglia di Al Queida: l’inversione di pratiche, rivoltare contro l’occidente l’iconofilia che lo deturpa. Quale gesto più sublime, esteticamente seducente e contemporaneamente più inquietante del crollo in mondovisione delle torri gemelle? Perdipiù senza mai mostrare realmente il dramma, evocandolo, facendolo immaginare. Tutti abbiamo visto le torri incrinarsi e sprofondare, nessuno ha visto ciò che è accaduto al loro interno o dentro gli aerei: la massima invisibilità nel momento di massima visibilità. La necessità di realismo è stata soddisfatta ma castrata durante l’esecuzione, rendendo il non vedere il vero lutto. Dal momento clou, dalla genesi di Ground zero la cultura iconofoba, quella araba, ha cannibalizzato la cultura egemone, diffondendo l’immagine come virus letale nel campo mediatico. Il terrore in casa di tutti e per tutti. Si iniziò con i filmati della distruzione dei Buddha in Afghanistan, si passò poi ai proclami di guerra santa. I terroristi hanno iniziato a filmarsi, ma sempre prima di farsi esplodere e mai durante l’atto: di quest’ultimo ne vediamo solo i resti, il monito. Come dei maestri dell’horror circoscrivono le immagini attorno all’evento ma mai durante, senza dislocarlo nello spazio e nel tempo, per essere ovunque e in qualunque momento. La reazione occidentale è inizialmente catatonica. Chi si accorse della inquietante potenza estetica dell’atto (Stockhausen ad esempio) venne violentemente messo a silenzio.

INSIDE MAN

Circolarono ossessivamente per tutti i media le immagini dei crolli, come se volessero entrare dentro le torri, cercare il mistero, svelare il dolore. Ma ovviamente non fu possibile e l’impotenza prevalse. L’america per cinque lunghi anni non riuscì cinematograficamente a reagire all’impotenza: il primo film ufficiale sull’undici settembre, piuttosto infelice, è “World Trade Center” di Oliver Stone del 2006, un pastone nazional-reazionario che tenta di ri-costruire la vicenda sviando il problema. Forse più interessante “United 93” di Paul Greengrass, che comunque percorre la strada di Stone, raccontando mitologicamente l’avvenimento. L’unico regista mainstream che non ha tradito il problema è probabilmente stato Spike Lee con “La 25° ora” e “Inside man”, senza peraltro mai parlare o raccontare i crolli. E’ curiosa la percezione dei film come delle pellicole che non parlano dell’11/09, a riprova della necessità fisiologica, nevrotica di realismo o perlomeno del verosimile, bandendo la metafore e le speculazioni artistiche. “La 25° ora” si presenta subito come appunto post-moderno e liquido su New York e la propria immagine: grattacieli scolpiti sinistramente da luci taglienti ci ricordano più il cinema di Murnau o Lang che le cavalcate gershiwiniane di Allen in “Manhattan”; si avvicinano maggiormente all’astratta e orizzontale babele visiva messa in scena da Scorsese nei sinistri titoli di testa di “Taxi driver”.Nel film di Lee, inizialmente tendente al verticale, i grattacieli rimasti costruiscono uno spazio scenico che avvolge i fari taglianti l’aria, simbolo di Ground Zero. Dopo niente, più nulla, si scende in strada per raccontare la sconfitta di un uomo. Consapevole della propria impotenza, il regista occulta l’icona delle torri (tranne in un piano sequenza gelido quanto falsamente banalizzato).Grande segno di cinema etico, occlude la figurazione, la maschera. L’immagine è occlusa perché polverizzata, corrotta dall’invasione mediatica araba. Diventa un’immagine impura e dunque falsa o meglio falsificata, fuori dallo Stato dell’immagine. In sostanza, ha cambiato statuto, senza arrivare ad una nuova identità. Altro mascheramento si ha in “Inside man”, film che racconta la rapina in banca fatta da un gruppo rivoluzionario. Nella rapina ostaggi e rapitori hanno abiti e maschere identiche. Le maschere in particolare eliminano ogni lineamento, rendendo il viso un cencio senza espressione, concettualmente vicino al burka afghano: si sottrae immagine commettendo un ulteriore atto del processo di espiazione iconica, creando una fisionomia globalizzata e dunque anonima. Il viso mascherato ed anonimo diventa metafora della nuova schizofrenia visiva americana e del rinnovato pudore visivo, cercando una nuova vita nel discernimento delle scelte, nella sottrazione. Si ostenta l’annullamento, lo schermo bianco, la non-riproduzione. Il ragionamento sulla perversione e corruzione dell’immagine qui tocca il climax: riprodurre un’immagine vuol dire metterla in evidenza, ed evidenziare un’immagine significa svuotarla di senso. Come diceva Bazin, né la morte né il sesso possono essere riprodotti, vivono in quanto unici. E cosa c’è di più sensuale di un avvenimento come l’11 Settembre, dove la morte viene ripresa ma mai mostrata, semplicemente evocata? Insomma, un po’ “Eyes wide shot”, un po’ “La finestra sul cortile”. E’ rilevante dunque, in conclusione, come tra le arti sia il cinema ad aver maggiormente ispirato l’elaborazione visiva dell’11/09, ad essere stato manipolato dal terrorismo islamico e come il cinema per ultimo e con difficoltà provi a rielaborare l’accaduto. Sinora forse solo Spike Lee ha tentato di ricostruire una coscienza visiva, ma probabilmente il lutto è ancora lungo.

Scrivi un commento


Ciascun commento potrà avere una lunghezza massima di 1500 battute.
Non sono ammessi commenti consecutivi.


caratteri disponibili

----------------------------------------------------------------------------------------
ALTRI ARTICOLI