Suicidio di mafia o di Stato?

27 Aprile 2017
Ottavio Olita

Il 12 febbraio 2004 Attilio Manca, brillante urologo che per primo sta sperimentando interventi sulla prostata in laparoscopia, 34 anni, siciliano di Barcellona Pozzo di Gotto, viene trovato morto nella sua abitazione di Viterbo. La scoperta viene fatta da due carissimi amici del giovane, un uomo e una donna, con i quali lavora nell’ospedale della città laziale, preoccupati per la sua incomprensibile assenza e per il suo silenzio. Il corpo è riverso sul letto, prono, seminudo, privo dei boxer.

Interviene la polizia e le fotografie che vengono scattate sul cadavere sono impressionanti: tante ecchimosi, un testicolo rigonfio da pestaggio, il naso tumefatto e completamente deviato. Quel che colpisce di più sono due forellini da puntura sul braccio sinistro. Accanto due siringhe. Il suicidio di un eroinomane?

L’inchiesta si avvia, prima lentamente poi in modo sempre più deciso, verso questa soluzione, senza che vengano presi in considerazione alcuni particolari fondamentali perché almeno insorga il dubbio. Innanzi tutto Attilio Manca era completamente mancino: perché si sarebbe iniettata la dose letale a sinistra? E della sua eventuale dipendenza da droga non c’è alcuna traccia in nessuna delle testimonianze di colleghi e amici.

Ancora: sulle due siringhe non vengono trovate impronte di alcun tipo. Ha usato i guanti per l’iniezione? Ma nell’appartamento di guanti non c’è neppure l’ombra. E dove sono finiti i boxer? E come si sarebbe procurato gli ematomi e le gravi contusioni al naso e ai testicoli?

Nessun dubbio, invece, per il procuratore della repubblica e il Pm di Viterbo: decretano che la morte è stata determinata da suicidio.

Com’è possibile?, cominciano a chiedersi gli anziani e determinati genitori di Attilio Manca e il fratello Luca. Così incaricano l’avvocato Fabio Repici di tutelarli. All’avvocato Repici poi si affiancherà anche l’ex magistrato Antonio Ingroia.

Pian piano si scopre che Attilio Manca verosimilmente è stato uno dei medici che ha curato – o è stato consultato – nella latitanza Bernardo Provenzano, operato in Francia per un tumore alla prostata. Un commissario di polizia, poi condannato per falso per aver dichiarato che a Bolzaneto i manifestanti avevano con sé bottiglie molotov dopo gli scontri per il G8 nei quali morì Carlo Giuliani, tenta invece di dimostrare che Attilio Manca proprio nei giorni di latitanza di Provenzano prestava servizio in ospedale. Cosa non documentata da alcunché. Ma allora, che cosa unisce la Mafia a oscuri ‘servitori dello Stato’?

Antonio Ingroia non lo manda a dire e afferma senza mezzi termini che l’omicidio di Attilio Manca è un ‘suicidio di Stato’, derivato da quella trattativa tra Stato e Mafia dopo le stragi del ’93 di via dei Gergofili a Firenze, a Roma e a Milano, il cui mediatore fu proprio Provenzano che poi venne tutelato durante tutta la sua lunga latitanza. L’ex magistrato non si limita a questo e ricorda come il procuratore di Viterbo, forse per giustificare indirettamente il proprio operato, parlò di una telefonata intercorsa con il Quirinale. Presidente, allora, era Giorgio Napolitano.

Se per la procura di Viterbo non c’è più storia, i difensori dei familiari di Attilio Manca sperano che ora intervenga la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma per  riaprire il caso.

Tutta questa incredibile vicenda viene ricostruita in un bel libro scritto da Lorenzo Baldo dal titolo “La mafia ordina: Suicidate Attilio Manca” ricchissimo di collegamenti, approfondimenti, particolari inediti. Impegno di scrittura che corrisponde perfettamente a quanto affermato da don Luigi Ciotti nella prefazione al libro: “(…) la ricerca della verità (…) non può essere solo compito della magistratura e delle forze di polizia. Tutti ne dobbiamo essere artefici, non certo calandoci nei panni degli investigatori, ma facendo la nostra parte di cittadini vigili e responsabili, affinché il bene comune non sia intaccato dalle zone d’ombra, da accordi sottobanco o trattative inconfessabili”.

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