Terra

16 Dicembre 2008

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Mario Cubeddu

‘Terra,
disisperada terra….
Mi zérrias,
terra, cun i sa ‘oxi serregada,
sa ‘oxi ‘e s’aradori verenau
chi àra’ cun duas bàccasa stasias
cungiadeddus perdosus,
sa ‘oxi ‘e su pastori cun sa cara
segàda ‘e sa straccia
in is pranus tuus fridus…’

Terra
O disperata terra…
Mi chiami,
terra, con la voce roca,
la voce dell’aratore invelenito,
che ara con due vacche macilente
campicelli pietrosi,
la voce del pastore con il viso
sferzato dai piovaschi
dei tuoi freddi altipiani…’

Terra, disisperada terra…”: la voce di Benvenuto Lobina riassume in modo estremamente sintetico secoli di condizione contadina in Sardegna, in Europa, in ogni parte del mondo. La terra chiama con la voce “’e s’aradori verenau”, del contadino pieno di veleno che ara con due vacche smagrite, la voce del pastore con la faccia segnata dal gelo e dalla fatica. La gente delle campagne, in Sardegna come in tutto il mondo, riceve raramente attenzione. Sarà che è poco organizzata, sarà che non ha cercato le alleanze giuste, sarà che contadini e pastori sono sempre in minor numero e più vecchi che giovani. Il settore agropastorale è uscito da qualche decennio dall’attenzione della politica e dei mezzi di comunicazione. Ritorna ogni tanto nella forma di nuove retoriche legate alla capacità di Slow Food di conferire glamour a ciò che tocca e nei pellegrinaggi cittadini alle sagre di paese. Del settore agropastorale ormai in Sardegna si parla poco. E’ comprensibile, visto che rappresenta solo il 5% del Prodotto Interno Lordo della Sardegna. Ma non esiste solo il PIL: l’uomo di campagna è l’ultimo custode di un territorio sempre più prezioso. Inoltre le aziende agricole in Sardegna erano ancora circa 40.000 nel 2006. In un triennio sono diminuite di circa mille unità. I lavoratori sono sempre più anziani e pochissimi sono i giovani che prendono il posto di chi abbandona. D’altra parte la Sardegna, con un territorio molto grande e scarsa popolazione, importa più di quanto esporti, con un saldo negativo nel settore agroalimentare di 94 milioni di euro. Importiamo di tutto, esportiamo solo un po’ di carciofi e molto pecorino romano. Dire mondo agropastorale in Sardegna dovrebbe significare un riferimento a realtà molto diverse. Si va dall’agricoltura estremamente specializzata e intensiva di Arborea e di alcune zone pianeggianti, all’altro estremo dell’attività pastorale come ultima risorsa nei piccoli paesi; allo stesso tempo economica, sociale e umana, per strati poveri che non avrebbero modo di trovare un inserimento in altre forme di produzione. Tanti luoghi della Sardegna hanno nell’agricoltura e nell’allevamento l’unica base produttiva, potremmo dire l’unico elemento che giustifichi la loro esistenza. Per questo la crisi ha portato ai paesi una perdita progressiva che è di senso prima ancora che di abitanti. E sembra difficile tornare indietro; vedere ad esempio dei giovani che scelgano in modo maturo di dedicarsi alle attività agricole. La terra non garantisce reddito, i produttori sono pesantemente indebitati, si legge che in prospettiva 7.000 aziende sarde siano destinate a fallire. “Produciamo, ma non riusciamo a vendere” è il lamento universale dei produttori, mentre i consumatori allo stesso tempo si lamentano dei prezzi troppo alti. I contadini abbandonano, subentrano gli speculatori, i costruttori dei latifondi del futuro. L’agricoltura sarda è in una condizione critica, come quella di tutto il mondo. Anche noi abbiamo la nostra monocultura, quella della pecora, che produce tra l’altro un tipico prodotto coloniale, il pecorino romano. Esposto come tutte le monoculture alle incertezze drammatiche e ai ricatti del commercio mondiale. Ma la Sardegna in questo campo non riesce a far sentire la sua voce. La Sardegna è rappresentata in campo agricolo da ciò che meno la identifica, le coltivazioni intensive di Arborea. Invece ciò che la caratterizza la accomuna di più dal punto di vista economico e sociale alle vicende dei paesi del sottosviluppo, le ex colonie dei continenti extraeuropei. Per questo contadini e pastori sardi potrebbero a buon diritto farsi portavoce dei problemi della produzione e del commercio di tutto il mondo in occasione del prossimo G 8 a La Maddalena. Come e cosa produrre, come vendere, come preservare la propria identità produttiva, che è natura, società, cultura. Sono i problemi che i contadini e gli allevatori affrontano in tutto il mondo. La mobilitazione che si prepara in occasione dell’arrivo dei potenti del mondo in Sardegna potrebbe essere l’occasione giusta per vedere quali problemi ci accomunano al resto del mondo e per portare anche a La Maddalena, attraverso un”assedio” pacifico, la voce delle “terras disisperadas” di tutto il mondo. Dove la terra produce e gli uomini muoiono di fame.

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