Tunisia. La rivoluzione continua

16 Gennaio 2018
[Alessandra Marchi]

« Fech Nestanaou ?», Cosa aspettiamo ?  Se lo chiedono i manifestanti che scendono nelle strade a Tunisi, Sfax, Ben Arous, Sousse, Kasserine, Gafsa, nei vari centri dei governatorati del paese. In ballo non c’è solo la contestazione della Legge finanziaria 2018 e dell’aumento dei prezzi di molti beni di prima necessità, avviata con l’omonima campagna di mobilitazione popolare. Il malcontento è esteso e profondo, diffuso geograficamente e socialmente e corre sulle fratture che compongono la società tunisina.

I numerosi arresti e gli scontri immancabili con la polizia in un gennaio caldo, come avviene da parecchi anni ormai, testimoniano la debolezza e la crisi di uno Stato che ricorre alla forza come unica modalità di controllo e (in)comprensione della realtà. Il governo di Youssef Chahed evidentemente è sordo alle richieste ed esigenze che il popolo esprime, sebbene non in modi uniformi e sempre consapevoli. Se i partiti maggiori, Ennahda e Nida Tounes, troppo presi a condannare le violenze e zittire le più che legittime rivendicazioni delle masse, non hanno il controllo di una situazione incandescente, tantomeno le forze di opposizione riescono ad organizzarsi ed essere più incisive.

Si tratta di dinamiche politiche ben note e diffuse. Ma in Tunisia le mobilitazioni continuano a moltiplicarsi, soprattutto dal basso, perché è impossibile non reagire agli squilibri interni, alle vergognose diseguaglianze e disparità che fratturano la società ed esprimono una  violenza di classe, istituzionale, capillare e strutturale, cui fa da pendant una classe politica miope, incapace di far fronte alle problematiche sociali che compromettono la vita quotidiana e il futuro della popolazione.

Siamo già oltre la protesta contro il rincaro dei prezzi e l’elevata disoccupazione. La conquista di maggiori libertà d’espressione riconosciuta da tanti testimoni e attori della « rivoluzione » del 2011 non garantisce ad oggi la giustizia sociale chiesta a gran voce dalle piazze. In un clima così teso, è facile polarizzare sia il sostegno ai manifestanti che le posizioni politiche delle varie forze in campo. Le strategie messe all’opera per costruire un consenso passivo nei confronti della classe dirigente, coadiuvate da molte letture mediatiche non di rado allarmistiche, non sembrano però efficaci nel disinnescare il potenziale ‘rivoluzionario’ in particolare delle classi più povere e marginalizzate. I lunghi tentativi di spoliticizzazione delle masse insomma non hanno portato i frutti sperati.

Dalla street politics arrivano lezioni importanti da condividere. La materialità di un’esistenza sempre più precaria e fragile tocca delle corde profonde e proprio per questo non può essere liquidata come questione che smuove pance e non intelligenze, come mero senso comune privo della consapevolezza di come stare al mondo dignitosamente, come se non fosse questione sociale e dunque politica.  Si tratta di una ennesima « rivolta sociale radicata nel processo rivoluzionario » secondo le parole di Sadri Khiari, che propone ottimi spunti di riflessione su Nawaat, portale tunisino indipendente che ospita interessanti letture e focus dall’interno (e da sinistra), insieme ad altri siti multilingue come Tunisia in red.

Anche nei nostri media mainstream si è tentato ripetutamente di sminuire le ‘rivolte arabe’ mentre molti analisti ne hanno decretato il fallimento, avendo magari in mente la rivoluzione francese come riferimento ! In diversi casi (che sono casi diversi, dalla Libia alla Siria, dall’Egitto alla Tunisia) si insinua superficialmente l’eterodirezione degli scontri e delle iniziative che emergono dal basso, negando in tal modo la soggettività e la legittimazione dei protagonisti locali delle rivolte. E’ inoltre un copione a noi noto quello che insiste sulla condanna delle violenze dei manifestanti, mentre esita a denunciare e dunque a capovolgere la legge del più forte ed il dominio di una classe egemone.

Indubbiamente diverse forze controrivoluzionarie sono in campo e non vanno assolutamente sottovalutate, il caso egiziano ne è esempio lampante e non certo l’unico, perciò è importante oggi essere partigiani e solidali nelle lotte per i diritti sociali, politici e civili, profondamente interconnessi.

Il compiacimento espresso in diverse analisi rispetto a supposte vie di « transizione democratica » o alla difesa della « stabilità » dei paesi del sud globale – i cui governi ricalcano o si piegano alle ricette neoliberiste imposte dal FMI – ci danno la misura dell’incomunicabilità tra linguaggi e praxis ma anche della crisi dell’egemonia capitalista.

Decostruire tale egemonia è dunque il compito che le forze di sinistra dovrebbero darsi : la domanda che potrebbe coalizzare le lotte non riguarda forse l’alternativa possibile al dominio del neoliberismo globale ? L’alternativa può e deve essere pensabile, nonostante sia radicato il convincimento contrario.

L’anniversario di una rivoluzione allora serve a ricordare, aldilà delle definizioni che vogliamo offrirne, la necessità di un cambiamento radicale e strutturale nel modo di governare un paese ed il mondo. Ci ricorda che non basta cambiare il personale al governo o una legge né barricarsi dietro una democrazia formale ma non sostanziale. Ci ricorda che quel che sembrava impossibile sette anni fa, come cento anni fa, è nuovamente possibile, perché « la rivoluzione continua a trasformare il mondo » come ci diceva Antonio Gramsci [Il grido del popolo, 16 marzo1918].

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