Un’alternativa all’OPG

1 Dicembre 2012
Daniele Pulino

Intervista a Giovanna Del Giudice.
La legge n. 9 del febbraio 2012 ha stabilito la “chiusura” degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) entro il marzo 2013. Non occorre spendere molte parole sullo stato deplorevole in cui versano i sei OPG italiani: associazioni e operatori del settore hanno denunciato da tempo come questi siano luoghi di negazione dei diritti. Ma la dichiarata chiusura  degli OPG,  in presenza di un codice penale che mantiene uno statuto speciale per le persone con disturbo mentale autori di reato, porta con sé il rischio concreto che le nuove strutture  sanitarie regionali previste dalla legge dove attuare le misure di sicurezza, moltiplichino il numero degli OPG. Eppure è possibile indicare pratiche e politiche pubbliche che, pur nell’attuale assetto normativo, si sono poste l’obiettivo di intervenire sul sistema OPG, utilizzando in maniera significativa le sentenze della Corte Costituzionale del 2003 e 2004. Il caso della politica che la Sardegna ha attuato dal 2004 al 2009 può rappresentare un punto di riferimento per politiche regionali volte a contrastare gli OPG. Ne abbiamo parlato con Giovanna Del Giudice, portavoce del Forum Salute Mentale, che dal 2006 al 2009 ha diretto il Dipartimento di Salute Mentale (DSM) della ASL di Cagliari.

D. Quali sono stati i principali interventi della Regione Sardegna per contrastare gli OPG nel periodo in cui hai lavorato a Cagliari?

R. Prioritariamente va ricordato che nel 2004 la Sardegna, rispetto alla popolazione residente, era la regione con il maggior numero di persone in OPG: 74 internati; più del doppio della media delle regioni italiane, che era allora di 20 internati per milione di abitanti. Inoltre sempre nel 2004, il Governo aveva progettato la costruzione di un centro clinico psichiatrico forense in Calabria, a Gerace, e uno in Sardegna. La giunta regionale sarda aveva deliberato la costruzione di questo centro, con 90 posti, a Ussana, in provincia di Cagliari. Nel luglio del 2005, dopo l’insediamento della giunta Soru, una delle  prime azioni dell’assessore alla sanità Nerina Dirindin -segno di una volontà politica forte di intervenire nel settore della salute mentale nel senso della deistituzionalizzazione è stata la revoca della delibera istitutiva di questo centro. Questo atto politico ha ispirato l’assessore alla sanità della regione Calabria, Doris Lo Moro che nel 2006 ha bloccato l’istituzione del centro di Gerace.
Altre due azioni adottate precocemente dalla Regione Sardegna erano mirate al contrasto all’OPG. Nell’agosto del 2005 viene stipulata una convenzione tra la Regione e il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria per garantire l’assistenza psichiatrica in carcere e si stanzia un budget per progetti individuali finalizzati alla presa in carico e dimissione delle persone internate in OPG. Nel giugno 2006, inoltre, viene deliberata l’entrata nel carcere minorile di Quartucciu di un’equipe della Neuropsichiatria infantile, per far fronte al disagio psichico dei giovani internati.

D. Quando inizia il lavoro in carcere da parte dei servizi di salute mentale della ASL di Cagliari?

R. A Cagliari il lavoro in carcere inizia nel 2006 con il recepimento della convenzione regionale da parte della ASL e la stipula di convenzioni specifiche con la Casa Circondariale di Cagliari e la Casa di Reclusione di Isili. Nello stesso anno inizia anche l’assistenza psichiatrica nel carcere minorile Quartucciu. Fino a quel momento l’assistenza psichiatrica in carcere era assicurata attraverso convenzioni con alcuni professionisti medici e infermieri. In particolare nel carcere di Cagliari,  il numero di atti di autolesionismo e di tentativi di suicidio era alto e così il numero di invii in OPG dal carcere. La convenzione con la Casa circondariale di Cagliari prevedeva l’entrata giornaliera di un’equipe multidisciplinare di un Centro di Salute Mentale (CSM) che prendeva in carico persone detenute con problemi di salute mentale del proprio territorio di riferimento. I CSM, inoltre, intervenivano anche in caso di bisogni specifici e/o urgenti dei detenuti già  in carico.

D. Tra il 2006 e il 2009 la Regione Sardegna  inserisce la salute mentale tra gli obiettivi del Piano Sanitario Regionale proponendo interventi di riorganizzazione del sistema dei servizi. Alcuni di questi interventi, penso ad esempio all’apertura sulle 24 ore dei centri di salute mentale e al tentativo di abolire la contenzione nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura, hanno incontrato resistenze molto forti. Succedeva qualcosa di analogo anche rispetto all’intervento in carcere?

R. No, in questa situazione non si manifestarono resistenze. Psichiatri, psicologi, infermieri e assistenti sociali dei CSM che avviarono il lavoro in carcere lo fecero a partire da una loro disponibilità. Anche i rapporti con il carcere furono positivi fin dall’inizio, in modo particolare con quello di Cagliari. Da parte dell’istituzione carceraria si riconosceva che l’ingresso degli operatori della salute mentale contribuiva a migliorare l’assistenza delle persone detenute. Gli effetti di questo intervento non hanno tardato a manifestarsi. Una ricerca fatta allora mostra che, dal momento in cui era iniziato il lavoro in carcere, il numero degli atti di autolesionismo e dei tentativi di suicidio da parte dei detenuti era decisamente diminuito. Inoltre erano stati azzerati gli invii dal carcere verso l’OPG.

D. Questo importante risultato viene raggiunto esclusivamente attraverso il lavoro in carcere?

R. Era il rafforzamento complessivo del sistema dei servizi di salute mentale e la qualificazione della presa in carico a determinare una diminuzione della popolazione con disturbo mentale inviata in OPG. Tutto questo avveniva peraltro all’interno di un importante rapporto che si era costruito con la magistratura di sorveglianza la quale, in passato, aveva svolto un’azione quasi di “supplenza” rispetto alle carenze dei servizi di salute mentale e di tutela dei contesti familiari e sociali, inviando pazienti in OPG, anche per reati di poco conto, ma reiterati. Si era riusciti a stabilire questo rapporto rendendosi disponibili, come direzione dei servizi di salute mentale, a essere immediatamente informati in relazione a un reato commesso da una persona seguita dai servizi o in genere che presentava un disagio mentale e mettendo in atto, attraverso il servizio di competenza,  una presa in carico ” forte”, alternativa all’invio in OPG. Per queste ragioni, in quegli anni, diminuiva in maniera significativa anche il numero di invii dal territorio.

D. Mi ricordo che c’era un grande impegno le persone che si trovavano in OPG e per assistere le persone che avevano attraversato questi luoghi. Come è stato impostato questo lavoro?

R. Nel porre tra le priorità del Dipartimento il contrasto all’invio in OPG e la presa in carico delle persone del territorio di Cagliari lì internate, avevamo avviato, anche attraverso la memoria storica degli operatori, un lavoro di ricostruzione dei percorsi di chi era tornato dall’OPG negli ultimi 5 anni per valutare e migliorare la qualità della presa in carico. Dopo la ricostruzione dei nomi delle persone internate iniziarono le viste degli operatori della salute mentale in OPG, finalizzate alla presa in carico e alla dimissione.  Ricordo che anche io, in qualità di direttore del Dipartimento, sono andata in almeno due occasioni negli OPG per cercare di dare un volto a queste persone. Una prima volta insieme al dott. Laddomada, che era allora il responsabile di un CSM, ho visitato gli internati dell’OPG di Aversa. Una seconda volta sono andata a Barcellona Pozzo di Gotto insieme a Gisella Trincas, in veste di rappresentante delle associazioni dei familiari. In questo secondo incontro si è creato un rapporto con Don Pippo Insana, il cappellano dell’Ospedale, che si è rivelato poi fruttuoso per il rientro di alcune persone, non solo della provincia di Cagliari, ma di tutta l’Isola.
Le persone internate in OPG cominciarono a tornare in Sardegna. Va anche detto che per molte di queste il ritorno è stato più che altro un percorso di trans-istituzionalizzazione, perché solo in pochi casi si riusciva a far ritornare le persone a casa mentre, più spesso, il ritorno avveniva con l’inserimento in comunità terapeutiche dell’isola. Ma a partire da quel momento le persone riprendevano un contatto con operatori e famiglie, e si metteva fine a un sistema di abbandono che era dato dall’internamento o dal ricovero nel continente.

D. Quali sono stati i risultati di questo lavoro?

R. Nel 2009 il numero degli internati sardi in OPG era sceso a 44 persone. Certamente in Sardegna su questo tema, a differenza di ciò che è avvenuto per altri aspetti della politica di salute mentale, non c’è stata una regressione: oggi in Sardegna, secondo gli ultimi dati, ci sono 31 persone internate.

D. Con l’introduzione della legge 9 del 2012 si è previsto di costruire delle strutture destinate a sostituire gli OPG. Quali problemi apre questa nuova situazione?

R. Premesso che in un recente incontro con i magistrati di sorveglianza, che si è tenuto il 1 ottobre a Bologna, è stato sottolineato come delle 1.500 persone oggi presenti in OPG, circa 1.000 potrebbero essere dimesse per cessata pericolosità sociale, quindi per loro è necessaria l’attivazione “senza indugio” dei dipartimenti di salute mentale, un primo problema che si pone, se la legge verrà applicata, è il rischio di un aumento del numero di posti residenziali per persone in misura di sicurezza detentiva in OPG, anche superiore agli attuali.
Per esempio in Sardegna come in Friuli Venezia Giulia, in Emilia Romagna  e in altre regioni,  le nuove strutture regionali  previste dalla legge potrebbero avere un numero di posti superiore al numero attuale di internati di queste regioni. Un secondo ordine di problemi attiene invece ai segnali allarmanti che ci arrivano da altre regioni come la Lombardia, che attualmente ha oltre 250 persone in OPG. Quello che qui sta avvenendo, in situazioni di servizi come quelli di Mantova, è che sembra si stiano riorganizzando i dipartimenti di salute mentale in funzione della gestione e delle logiche di queste nuove strutture, togliendo risorse alla salute comunitaria. In generale si potrebbe raggiungere un numero complessivo 70 o 80 strutture sanitarie per rei- folli e si potrebbero creare in uno stesso luogo strutture grandi suddivise in moduli da 20 posti. Da ultimo queste strutture avranno le porte chiuse interne ed esterne, i sistemi di video sorveglianza, i sistemi di allarme; alcune la sorveglianza perimetrale da parte delle forze dell’ordine. In questi luoghi di nuovo la cura sarà congiunta con la custodia. Si ritorna indietro e per questo noi diciamo no a questa legge che nei fatti non determina alcun reale e definitivo superamento degli OPG.

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