Un’università per studiare e fare ricerca

1 Novembre 2008

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Antioco Floris

Il movimento nato in questo mese chiede un’università nuova, dove sia possibile studiare e fare ricerca, che abbia un respiro internazionale, che sia di qualità, che premi il merito e la competenza, che contribuisca alla crescita della società e dell’economia. Ed è un movimento che è nato per riempire un vuoto lasciato aperto da tutta la classe politica che non è stata in grado di pensare un modello universitario adeguato ai tempi. Non a caso, leggendo le tabelle che riportano i dati sugli investimenti in ricerca e sviluppo dei paesi industrializzati, si rimane piuttosto perplessi nel vedere la posizione occupata dall’Italia. Il nostro paese è collocato nella parte bassa della classifica e si caratterizza come uno di quelli che spendono meno in rapporto al PIL: l’1,1% contro il 3,9 % della Svezia, il 3,3% del Giappone, il 2,6% degli USA, il 2,5% della Germania, il 2,13% della Francia, il 2% del Canada. Nel 2005, anno a cui sono riferiti questi dati, a fianco all’Italia stava la Spagna, anche lei ferma all’1,1%. Ma con una piccola sfumatura: l’Italia nel quinquennio precedente ha incrementato le risorse pubbliche in questo settore dello 0,2%, la Spagna del 18,6%. Il ragionamento è chiaro: i paesi industrializzati spendono in ricerca e formazione molto più di quanto non faccia l’Italia e quelli che spendono meno negli anni incrementano gli stanziamenti in modo da raggiungere livelli più alti (il 2,3% della media OCSE). In questo contesto le politiche del Governo Berlusconi relative a questa materia lasciano sconcertati non foss’altro perché appaiono in netta controtendenza rispetto al trend internazionale: nei prossimi cinque anni il taglio previsto per l’università è di circa 1.500 milioni di euro, cifra che porta ben al di sotto dell’1% la spesa italiana per ricerca e sviluppo.
Altre tabelle ci informano sulla spesa per ogni singolo studente. Anche qui l’Italia non è ben messa. Per ogni studente spende infatti circa 8.000 dollari l’anno, 3.500 in meno della media OCSE, 16.000 in meno degli USA, 4.500 in meno della Germania. Nella tabella sul rapporto numero docenti/numero studenti siamo in sintonia con i dati precedenti. Negli USA abbiamo un docente ogni 15 studenti, in Germania 1 ogni 12, in Francia 1 ogni 17, la media OCSE è di 1 ogni 15, ma in Italia il rapporto è di 1 a 20. Anche da questo punto di vista le scelte del governo non tornano. Il corpo docente sembrerebbe troppo numeroso quindi va ridotto drasticamente il turn over per i prossimi anni. I tagli, come il blocco del turn over, vengono motivati dalla difficile situazione delle casse dello Stato ma soprattutto dalla necessità di rendere più produttiva l’università italiana riducendo gli sprechi e adeguandola agli standard internazionali e in particolare, come ripete costantemente il ministro Gelmini, a modelli  americani. Quanto detto sopra sull’università americana rende superfluo ogni commento. Gli effetti immediati dei tagli al fondo ordinario si noteranno soprattutto nella riduzione dei servizi agli studenti e nell’aumento delle tasse, che aumenteranno da subito in maniera esponenziale e metteranno una seria ipoteca sull’università di massa. Ma l’effetto più deleterio sarà dato dall’insieme del taglio dei fondi e del blocco del turn over. La riduzione del numero dei docenti porterà all’aumento del carico didattico di ciascuno che potrà quindi impegnarsi sempre meno nelle attività di ricerca. Come viene evidenziato da più parti si arriverà alla creazione, sul modello anglosassone, di due tipi di ateneo, uno prestigioso, magari privato, dove si farà ricerca e didattica di qualità, e un’altro pubblico, dedicato unicamente alla didattica o alla ricerca di base, una sorta di maxiliceo rivolto alla massa degli studenti che non potranno permettersi la frequenza degli atenei prestigiosi. Ciò di cui negli interventi legislativi non si vede traccia è un sistema di valutazione che permetta di razionalizzare i tagli e il turn over, che privilegi i capaci e il merito, che ostacoli le lobbies e i baronati improduttivi. Su questo evidentemente il governo attuale, come anche tutti i precedenti, è disinteressato e non interviene. I tagli vengono spalmati equamente senza fare distinzioni fra eccellenze e mediocrità, fra giovani promesse e vecchi esausti. L’università è come qualsiasi altro ambiente di lavoro, c’è chi produce e chi vivacchia sulle spalle altrui, c’è chi è presente attivamente e chi si preoccupa solo di incassare lo stipendio, c’è chi entra e fa carriera per merito personale e chi invece vive di rendita perché è figlio di famiglia. Tutto questo rimane intatto, il legislatore sembra non preoccuparsene. In fondo, amara constatazione, l’interesse verso l’università pubblica è legato solo all’esigenza di fare cassa, di recuperare risorse da girare in altri settori considerati più remunerativi.Insomma, come capita di sentire spesso, con queste scelte il governo Berlusconi vuole minare l’università pubblica a vantaggio di quella privata rivolta all’elite del paese (in questo rientra evidentemente la possibilità data agli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato). La cosa non dovrebbe scandalizzare più di tanto, potrebbe essere una “normale” politica di destra a cui ci si contrappone con gli strumenti offerti da uno stato democratico. Il problema è che l’opposizione al governo Berlusconi ha perso credibilità. Solo facendo propria la domanda di cambiamento espressa dal movimento in queste settimane potrà invertire una tendenza pericolosa che la vede fortemente compromessa.

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