Un 10 luglio incoraggiante

16 Luglio 2009

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Costantino Cossu

I ventimila che il 10 luglio hanno sfilato a Cagliari durante la giornata di sciopero dell’industria e del terziario indetto da Cgil, Cisl e Uil sono innanzitutto un dato politico. Rilevante per due aspetti: in positivo uno, in negativo l’altro. Il primo è la ritrovata unità delle organizzazioni confederali, divise a Roma come a Cagliari da visioni strategiche differenti del ruolo del sindacato e, di conseguenza, divise su molti contenuti. Il fatto che le tre sigle confederali abbiano organizzato uno sciopero generale di settore evidenzia la gravità della crisi economica in Sardegna e, nello stesso tempo, segnala la praticabilità concreta di un terreno sul quale far rinascere un minimo di confronto sindacale unitario. Se si parte dalle fabbriche e dai territori, se si parte dalle condizioni di lavoro e di vita di chi lavora, riannodare i fili di un dialogo e di un’azione comune diventa, forse, nuovamente possibile. L’altro motivo, quello in negativo, per cui lo sciopero del 10 luglio ha un rilievo politico, è la sostanziale solitudine del sindacato nella battaglia non soltanto contro la crisi economica, la cassa integrazione e la disoccupazione, ma anche per definire vie d’uscita dalla crisi che significhino crescita reale dell’economia sulla base di nuovi paradigmi, radicalmente differenti da quelli che alla crisi hanno portato. A parte la difesa delle ragioni dello sciopero da parte di Ugo Cappellacci, presidente di una giunta di centro destra che sulle questioni del lavoro e sulle politiche anticrisi sinora non ha fatto praticamente nulla, l’unica presa di posizione di un certo rilievo sullo sciopero è venuta da Rifondazione comunista, per bocca del suo neo eletto segretario regionale, Gianni Fresu: «Lo sciopero generale dell’industria si è rivelato una grande manifestazione di popolo, alla quale hanno preso parte anche altre categorie produttive e migliaia di cittadini sardi esasperati da una situazione insostenibile. Dopo le miracolistiche promesse della campagna elettorale (chi ricorda più i mille euro per ogni disoccupato promessi da Cappellacci?), questa giunta regionale si è distinta soltanto per l’opera di occupazione di potere e per il rapporto di servile vassallaggio alle esigenze del premier Berlusconi. La Sardegna sta vivendo una drammatica desertificazione industriale ed economica, lo schiaffo dell’Eni che chiude Porto Torres è solo l’ultimo episodio di una lunga serie di comportamenti che confermano il disprezzo verso la Sardegna da parte del governo nazionale e delle imprese. Portovesme, Porto Torres, Ottana, Macchiareddu, sono le stazioni di una infinita via crucis inflitta ai lavoratori sardi». Dal Partito democratico, silenzio assoluto. I dirigenti sardi del Pd sono troppo assorbiti dalla guerra precongressuale tra correnti, tutte le energie sono assorbite dallo sforzo di schierare le truppe in vista dello scontro per la scelta del segretario regionale. D’altra parte, nel giorno in cui tre operai di una ditta esterna sono morti a Sarroch di «riduzione dei costi di gestione», l’attenzione dei leader nazionali del Pd era tutta per le escort di Silvio Berlusconi. Andate a rileggere i giornali di quella maledetta giornata: neppure uno dei dirigenti nazionali del Pd di un qualche rilievo ha commentato la morte dei tre operai. Noi, poveri ingenui, ci aspettavamo una dichiarazione di Dario Franceschini, del segretario nazionale. Va rilevata come un dato politico serio e allarmante la solitudine dei sindacati e dei lavoratori. E’ un ulteriore segnale dell’indebolimento del fronte sociale del lavoro sull’asse dei rapporti di forza che decidono le grandi questioni sul tavolo della politica nazionale. Dietro l’impressionante spostamento a destra del quadro politico generale, la scelta di fare del Pd un partito di centro a vocazione maggioritaria si colloca con perfetta coerenza. Consapevoli che il livello della politica è essenziale per la loro battaglia e per quella dei lavoratori sardi, all’indomani dello sciopero del 10 luglio, i segretari di Cgil, Cisl e Uil della Sardegna hanno inviato una lettera al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per sensibilizzarlo sui «tempi dello sviluppo dell’isola» e per chiedergli «un intervento presso l’Eni e la presidenza del consiglio». «I prossimi giorni — scrivono Enzo Costa, Mario Medde e Francesca Ticca — saranno decisivi per capire se la politica saprà investire su questa rinnovata volontà di lotta e di proposta e sulla disponibilità dei sardi a scommettere su una nuova stagione di rinascita». «La dimensione della partecipazione e delle adesioni — proseguono i leader sindacali —, la presenza numerosissima di giovani, ma anche delegazioni di pensionati, insieme a tutte rappresentanze delle fabbriche e dei siti industriali della Sardegna è un segnale che va colto in due direzioni. I sardi non ritengono ineluttabile la crisi e il tendenziale peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, hanno anche voglia di lottare perché ritengono possibile una nuova fase, caratterizzata da maggiore occupazione e da uno sviluppo incentrato certamente sulle imprese, ma anche dall’aumento delle tutele sociali». I tre segretari una prospettiva la indicano nella lettera a Napolitano: «Lo sciopero del 10 luglio è un forte segnale alla politica sarda, e prima di tutto la Regione, perché venga rinegoziato con la Stato, attraverso un nuovo Statuto speciale, con l’intesa istituzionale di programma e con accordi bilaterali sui diversi settori dell’economia, un rinnovato patto costituzionale, incentrato su riconoscimento e sul sostegno delle basi materiali dello sviluppo e sulle risorse e i poteri necessari all’isola, per allinearsi alle più adeguate dinamiche dei processi di integrazione europea». Certo, non c’è solo la strategia: ci sono alcuni obiettivi immediati, tra i quali il rispetto degli accordi sulla chimica, il contributo dello Stato al rilancio del tessile, il risanamento dei siti inquinati, le nuove attività da collocare nei siti industriali in difficoltà, la completa attuazione dell’accordo sull’energia, gli interventi necessari a rendere competitivo il sistema agro-alimentare, la continuità territoriale delle persone e delle merci. «Ma — dicono i tre segretari a Napolitano — si tratta di governare queste scelte in una strategia di nuova politica industriale e del lavoro, in grado di assecondare le naturali predisposizioni dell’isola e insieme la valorizzazione delle risorse ambientali, umane e culturali». Chi saprà proporla questa politica? Il governo Berlusconi? Il Pd di Franceschini che guarda all’Udc?  Molto significativamente i tre segretari nella lettera a Napolitano aggiungono: «Siamo consapevoli che nessuno ci regalerà niente. Proprio per questo dobbiamo contare sulle nostre forze e sull’unità necessaria a sviluppare rapporti di forza tali da portare lo Stato e l’Unione europea a individuare nelle specificità e nelle diversità della Sardegna un patrimonio utile all’Italia e all’Europa». Perciò Cgil, Cisl e Uil hanno deciso di puntare su un’iniziativa importante per la Sardegna, se davvero sarà realizzata: «Convocheremo a breve un congresso del popolo sardo — scrivono a Napolitano i tre segretari — per una nuova stagione costituente per l’isola, sia sul versante economico sia su quello istituzionale». Si vedrà che risposta arriverà da chi dovrebbe stare «naturaliter» dalla parte dei sindacati: Pd e sinistra. E che risposta arriverà nei prossimi giorni di fronte alla riapertura del tavolo di confronto a Palazzo Chigi e di fronte al negoziato fra parti sociali e giunta regionale per rendere più efficace ed efficiente l’utilizzo delle ingenti risorse finanziarie a disposizione della Sardegna, a partire dal ddl «collegato» alla Finanziaria 2009 e dalla programmazione di quelle del quadro comunitario di sostegno 2007-2013. Sarà un banco di prova decisivo. Se i sindacati perdono, le conseguenze negative non saranno solo a carico dei lavoratori lasciati soli di fronte alle serrate e alla cassa integrazione. Le conseguenze, politiche, saranno disastrose per tutta la sinistra.

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