Una bussola senza condottieri

1 Maggio 2008

Bussola
Marcello Madau

Domandarsi perché la ‘Sinistra Arcobaleno’ abbia perso alle recenti elezioni politiche appare come una domanda mal posta: sarebbe più opportuno chiedersi perché mai avrebbe dovuto vincere. La domanda riguarda in realtà, nelle sue articolazioni, tutta la sinistra, l’area che si definisce genericamente progressista e i cui condottieri hanno perso decisamente la bussola, i più fragili smarrendosi nel letame del Porcellum.
La serie tipologica delle spiegazioni proposte tocca punti singolarmente significativi: elezioni che irrompono su un giovane processo formativo, scarsa identità, carente rappresentatività sociale, simbolo e nome discutibili, assenza della falce e del martello, mancanza di rinnovamento dei compagni dirigenti (fatto che, per inciso, non riguarda solo i partiti ma anche i movimenti), eclettismo programmatico, cannibalismo del c.d. voto utile a favore del PD, infame meccanismo maggioritario, generale insoddisfazione a sinistra e relativo astensionismo etc. etc. etc. Se nella vicenda elettorale a sinistra si sono colti più i toni del grigio che i vividi colori dell’arcobaleno, la tempra veltroniana da Padre Flanagan, in una città di ragazzi cresciuti e per bene, è approdata ad un finale persino un po’ ridicolo, se leggiamo quanto dichiarato dopo la vittoria a Roma di Gianni Alemanno: “invidio alla destra la sua capacità di reazione orgogliosa (…). Noi, quando perdiamo, siamo portati alla riflessione malinconica e crepuscolare.” I dolori del giovane Walter. Liberi da malinconie crepuscolari, ci tocca osservare che la sinistra, quando fa la sinistra, può anche vincere: più che consolatorio il caso di Vicenza appare istruttivo.             Un sindaco legato a quel movimento No Dal Molin duramente avversato dal governo dell’Ulivo, viene eletto in pieno regno leghista (e non contro i movimenti, come vorrebbe la recente, miope lettura di Luca Casarini).
Uno sguardo più ampio mostra però che il vero dramma in atto non è il responso elettorale fortemente negativo (una conseguenza), ma il profondo mutamento dei tratti del Novecento nella produzione e nel lavoro, nella composizione di classe, nella natura di sfruttamento e alienazione, nella falsa coscienza costruita dalla ‘società dello spettacolo, assieme all’incapacità di coglierlo e coniugarlo da sinistra, a fronte di una ben superiore capacità di interpretarlo a destra. Ma non ci si libera del Novecento trattandolo come un oggetto di consumo poco elaborato e rinunciando agli insegnamenti che la sua trama, e la sua crisi, ci possono portare: come il fatto che la degenerazione e la sconfitta del primo tentativo di risposta organica e rivoluzionaria al capitalismo e all’alienazione non significhi che non sia corretto cercarne altri, nè che il capitalismo sia nel giusto e smetta di essere decisivo nel generare diseguaglianza, alienazione, guerra, distruzione del pianeta; o la fine della centralità operaia che equivale certo alla ‘fine del lavoro’ e della sua centralità, poiché il lavoro ha ‘semplicemente’ cambiato di collocazione e genere, ma resta sempre, in questo sistema, occasione di alienazione e sfruttamento.

Si sono persi i collegamenti con i soggetti sfruttati potenzialmente disponibili al cambiamento: da quelli tradizionali ai lavoratori della conoscenza, le masse migranti, le ‘moltitudini metropolitane’ e i nuovi scenari urbani, uomini, donne, territori e popoli senza diritti. Né si colgono le sfide e le contraddizioni poste dai temi dell’identità: pur declinati in maniera contradditoria e spesso reazionaria (definendo confini da difendere verso gli altri piuttosto che da superare con gli altri) essi contengono elementi di riflessione, autocoscienza e confronto fondamentali.
Se la sinistra non è riuscita a individuare, collegare e rappresentare le diverse subalternità, attraverso una critica aggiornata e radicale del capitalismo, il Partito Democratico non si è posto neppure il problema, scimmiottando il modello di copertura totale interclassista già proposto da Berlusconi (ricorderete nel 1994 il Presidente imprenditore e il Presidente operaio). Il sindacato ha imposto il collateralismo puntellando il governo con una grave, imperdonabile gestione del protocollo sul welfare. Oggi, dopo aver costretto per decenni ad una battaglia sterile (perché non condotta con la necessaria durezza) contro gli straordinari e il blocco del turn-over, si sorprende che molti operai, che hanno visto stipendi taglieggiati, figli disoccupati e la sconfitta sul welfare, cambino riferimenti e accettino la detassazione degli straordinari, pur di mettere qualcosa in tasca.
La mancanza di ogni prospettiva e pratica aggiornata di cambiamento e liberazione ha reso superiore, in questa difficile fase, la proposta della destra, i suoi valori competitivi relativamente temperati da elargizioni apparentemente dirette, che promettono l’accesso al consumo e ad una cittadinanza protetta da altri possibili ‘commensali’ che premono, nel dramma planetario post-novecentesco, alle frontiere.
Il capitalismo, pur con difficoltà crescenti ed impossibili da sanare, affronta la spettacolare crisi generata nella Terra elaborando e sfruttando incubi allevati e prodotti, occultando nelle coscienze la pesantissima diseguaglianza e il senso stesso della giustizia sociale, inoculando il desiderio di rimozione, sogni piccolo-borghesi, bisogno di protezione autoritaria del proprio spazio ristretto, costruendo giganteschi strumenti di alienazione.
E’ necessario rifondare un’intelligenza collettiva in grado di riprendere quella bussola che punta il suo ago rosso verso la messa in discussione permanente del sistema capitalistico, che produca analisi, scambi informazioni, sappia parlare alle persone entrando nelle sue esperienze. Serve nuova conoscenza, la cui natura richiederà impegno e tempi non brevi. Ambito nel quale va esaltata la circolazione orizzontale dei saperi: fondamentale il ruolo di Internet, e ci impegneremo da questo punto di vista a fare la nostra parte per potenziare, senza rinunciare alle necessarie attenzioni critiche, questo straordinario strumento di democrazia, a partire dalla socializzazione, come stiamo facendo per i call-center, delle situazioni e dei saperi lavorativi.
Ma non è che i nuovi ed indispensabili quadri teorici e analitici siano separabili dall’impegno sociale (essi stessi, ovviamente, lo sono) e politico, che restituisce a sua volta materiali preziosi: la conquista e l’esercizio della democrazia in tutti i luoghi sociali (lavoro, scuola, politica), il disvelamento dell’alienazione, il rifiuto della violenza su corpi e menti, la difesa dei diritti collettivi e dei beni comuni come quelli primari e il patrimonio culturale e paesaggistico, il no intransigente alla guerra. Dimostrare che il diritto all’esistenza, al godimento dei beni comuni ed al loro governo collettivo sono una forma superiore di civiltà deve essere comunicato con scienza e passione, diventare obiettivo entusiasmante.
Non sarei così disperato per questa sconfitta, che può essere una salutare occasione per affrontare alla radice i problemi che ha rivelato, a partire dalla prevalenza evidente nel paese di una mentalità, prima ancora che di un risultato elettorale, di destra.
E siccome credo che il problema sia nella sostanza planetario, più che interessarmi alle prossime elezioni regionali sarde riproporrei per il 2009 il contro-vertice noG8 già suggerito da queste pagine, come punto alto di discussione tematica sulle sorti del mondo. Perché non iniziare da ora a fissare i temi, a preparare dossier, a costruire battaglie sociali e di cultura in modo da arrivare al Forum Globale sardo con un bel po’ di lavoro già avviato?

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