Una telefonata interrotta

16 Gennaio 2020

Foto Recollecting Italian Phonebooths

[Gianni Loy]

Ho appena riagganciato, un tempo si diceva così, nel senso di appoggiare la cornetta sull’apparecchio telefonico. Sarà che l’oggetto della telefonata riguardava il passato, di quando i numeri erano racchiusi all’interno di una struttura circolare che occorreva far ruotare, numero per numero, sino a che il movimento del dito non veniva interrotto da una semiluna di metallo che impediva il prosieguo della corsa.

Se ancora esistessero delle trasmissioni televisive tipo Telemach, sarebbe un arnese ideale per il gioco dell’oggetto misterioso.

Del resto, il contenuto della telefonata appena interrotta riguarda un passato vecchio ormai di oltre mezzo secolo.

– Ricordi di aver collaborato alla realizzazione di un documentario sulla scuola, girato al Dettori a cavallo tra il 1968 ed il 1969?

Non lo ricorda.

– Sei sicuro? Mi chiede.

– Sicuro al cento per cento non posso esserlo, ma nei titoli di testa del documentario, intitolato “Dove va la scuola”, c’è proprio scritto: “Voce: Giancarlo Buffa”. Anche se non lo ricordi, devo proprio pensare che la voce sia la tua. L’ho riascolta. Non è quella degli altri amici che hanno collaborato alla realizzazione del documentario. Quindi …

A questo punto, Giancarlo diventa possibilista.

– E’ passato molto tempo, lo so.

– Ed è da molto tempo che non ti sento…

Giancarlo ricorda episodi più recenti.

– In ogni caso, volevo informarti del fatto che abbiamo recuperato quel filmato e che il 17 gennaio lo proietteremo, restaurato, al Liceo Dettori, nell’ambito della manifestazione “Notte Nazionale del liceo classico”, alle 18,15. Mi sembra doveroso invitarti. Pensi di poter venire?

– Ora sono per strada, appena rientro prendo nota. Credo proprio di si.

Comprendo che non utilizza più la cornetta, ma un telefono intelligente. Rifletto sul fatto che possa aver dimenticato un’esperienza che, per me, e per altri che continuo a frequentare, è quasi epica. Eppure mi viene il dubbio. Si tratta di un’esperienza fortemente legata al 68, ad una data evocativa, anche soltanto a pronunciarla. O forse no. O forse solo per me, per noi, specie in via d’estinzione, che ancora fingiamo di credere che tutto sia incominciato in quell’incubatore e che la nostra, attuale, esperienza quotidiana debba ancora essere interpretata alla luce di quella formidabile esperienza. L’espressione è presa in prestito da un altro amico, che non so più esattamente come la pensi, ma che sino a qualche decennio fa ancora dichiarava: “Formidabili quegli anni”.

-Sai. Pensavamo di averlo perduto. O meglio, conservavo il video, ma non si trovava l’audio. Mica era come oggi. Il film, era in bianco e nero, in 8 millimetri, non era ancora arrivato neppure il super 8. L’audio era da un’altra parte, in un nastro magnetico… Vuoi dire la sincronizzazione? Beh, avevamo un riferimento visivo nella pellicola; nel momento in cui tale riferimento compariva sullo schermo si premeva il tasto dell’avvio sul registratore, naturalmente meccanico, sperando che il tasto non si inceppasse.

– Negli anni scorsi ho cercato inutilmente il nastro. Ho chiesto agli amici di controllare a casa loro. Niente da fare. Poi, la scorsa primavera, la svolta. Ho rintracciato una bobina nel fondo di un cassetto. L’ho fatta avere ad Antonello Zanda; in realtà non ci speravo, ed invece, in un lungo nastro a 4 piste che contiene, tra l’altro, una lunga intervista di Franco Oliverio a giovani di S.Elia sul tema della devianza, proprio subito dopo l’avvio dell’ultima delle piste, è esplosa la possente ouverture della Cavalleria leggera, di Franz Von Suppé, il brano che avevamo scelto per la sigla dei nostri lavori cinematografici. Ho dovuto attendere che sfumasse la musica per esserne certo. Così abbiamo ritrovato l’audio. La cineteca sarda ci ha dato una mano ed eccoci, di nuovo, con i nostri ricordi tra le mani.

– Beh. La prima cosa che mi è passata per la mente è stata quella di mostrare il lavoro agli amici che l’avevano realizzato, ad Antonello Demurtas, a Francesco Toccafondi.

Ma Francesco (Zilio) non c’era più. Il mio pensiero è andato subito a lui. Era, tra tutti noi, il più appassionato di cinema. Girava per la città con una piccola cinepresa, al porto, nei parchi, nei cimiteri, amava rubare immagini. Tentava di convincere qualche amica a girare qualche scena osé, ovverossia un bacio poco più che innocente. Non erano quellli, almeno non per noi, tempi di donne e champagne… Ci ha lasciato un breve documentario, realizzato interamente da lui, intitolato “Io e il dolore”. Lo conosco a memoria. Due anni fa ho ricostruito la colonna sonora, ricordavo, se non tutti, almeno alcuni dei brani (il primissimo Battisti) con i quali accompagnava la proiezione. E poi, con lui, mi pare nel 1970, abbiamo realizzato un altro documentario, sull’industrializzazione in Sardegna, per conto di un Centro di formazione professionale, il CNIOP. Passavo, nel pomeriggio, a prenderlo sotto casa, in piazza Giovanni, e poi via a girare con la cinepresa. Una volta ci siamo sdraiati sul bordo della ferrovia per riprendere, dal basso, il treno che sfrecciava. La paura l’abbiamo provata dopo.

– Mi chiederai cosa tutto ciò importi alla gente. Perché mai non dovrebbe importargli? Perché non deve sapere che Francesco era amico mio, che c’è stato un tempo nel quale ci vedevamo tutti i giorni, che abbiamo percorso assieme mezza Italia dentro una 500 e, soprattutto, che spesso era triste? Era triste perché la città gli stava stretta, la routine monotona ed oppressiva. Il maestrale gli tarpava le ali e non aveva alcuna possibilità di spiccare il volo verso i luoghi dove la vita prosperava davvero e consentiva esperienze che la città provinciale di quei tempi gli negava.

Giancarlo non mi ascolta più, forse ci rivedremo venerdì prossimo, ma fingo di raccontargli qualche altro dettaglio di quella esperienza – bisogna pure che qualcuno mi ascolti – . Come le notti passate in una stanzetta al pian terreno della casa dei genitori di Marcello (Angius), impegnati nel montaggio audio-video del documentario. Tra forbici e colla, è stato un interminabile andirivieni alla ricerca della sincronia, tutta manuale, tra la pellicola che danzava nella moviola e il nastro magnetico che correva avanti e indietro. Ricordo quanto Marcello fosse preciso e scrupoloso nel mettere assieme i pezzi.

Una notte, dopo aver terminato il lavoro di montaggio, a tarda ora, abbiamo deciso di aspettare l’alba, in viale Europa. L’idea di passare una notte di veglia, tra il lavoro e l’attesa dell’alba, ci affascinava, ci inebriava, ci faceva sentire inossidabili.

Anche Marcello è andato via, ma ha avuto il tempo di rivederlo, il documentario restaurato, ha avuto il tempo di rievocare vecchi fasti. Ma che senso ha, oggi, ricordare che, prima di un avvenimento così definitivo come la morte, ha avuto occasione di riportare alla mente scorci della sua giovinezza?

– Se non esistesse il tempo, tutto sarebbe più semplice, le cose sarebbero immutabili; non potremmo modificare le percezioni e le opinioni. Non avremmo motivo di chiederci se le esperienze di quegli anni “sono”, oppure “sono state”.

– Prendiamo il preside, Pietro Rachel, che io, per lungo tempo, ero convinto si chiamasse davvero Pampurio. Aveva fama di persona severa, autoritaria e reazionaria, cioè proprio il prototipo dell’avversario nostro, di noi che pensavamo che la rivoluzione partisse dalla scuola, che occorresse combattere la sua organizzazione classista e selettiva, i suoi contenuti antiquati e conservatori. Effettivamente, in quegli anni, si sperimentavano le prime forme di partecipazione, il vecchio esame di maturità stava per lasciare il posto alla prima delle tante riforme. E’ accaduto che, riascoltando oggi la voce del preside Rachel, mi renda conto che il suo pensiero non corrisponde esattamente allo stereotipo del conservatore autoritario, largamente diffuso tra gli studenti ed i professori dell’epoca. Oggi, trovo il suo pensiero più equilibrato, più ragionevole. Sbaglio oggi o sbagliavo allora? Mi colpisce, ripensandoci, soprattutto, la sua disponibilità. Ancora mi chiedo come abbia potuto permettere l’accesso quasi incondizionato alla scuola a cinque giovanissimi ragazzi che già manifestavano propensione per la protesta, che del 68 incominciavano a praticare anche l’estetica, consentendoci di scorrazzare per le classi, entrare in aula ed intervistare i docenti durante l’ora di lezione, porre domande maligne allo stesso preside…

Che, in realtà, fossimo dei professionisti, non poteva saperlo, se anche glielo avessimo confessato non ci avrebbe certamente creduto. Eppure era vero: Antonello (Demurtas), anche se noi, per verità, ironizzavamo sulla sua mise di scena, conduceva le interviste in giacca e cravatta, in modo impeccabile. Quel documentario, dopo un’anteprima in sala professori, è stato proiettato a tutti gli studenti in aula magna. Un vero e proprio avvenimento. Se questa non si chiama disponibilità? Del resto, il 3 febbraio del 1968, la scuola aveva ospitato anche la rappresentazione di un’opera teatrale di Pierfranco Zappareddu, all’epoca studente del Liceo Dettori, La Storia dello Zoo, di Albee, una rappresentazione teatrale d’avanguardia che, all’epoca, non era facile rappresentare neppure negli Stati Uniti. Eppure è stato possibile metterla in scena proprio al Dettori, anche se le cose sono poi andate come sono andate: dopo una predica infuocata di Mons. Lepori dal pulpito della chiesa di S. Lucifero, quello studente, impertinente e coraggioso, è stato espulso, ma sarebbe ben presto diventato un grande regista teatrale.

– Probabilmente si tratta di ricorsi sparsi, di divagazioni. La verità è che non trovo una risposta soddisfacente ad una domanda che si è insinua, prepotente, nei miei pensieri: perché mai dovremmo riproporre la proiezione di un vecchio documentario, in bianco e nero, logorato dal tempo, dalle cicatrici impresse alla pellicola dagli sfregamenti sui rocchetti dei proiettori, dalla luce delle lampade, dalle frettolose riparazioni ai tagli inferti alla celluloide dal malfunzionamento dei proiettori?

– Cioè: a chi e perché dovrebbe interessare? Forse per verificare se e quanto il tempo abbia potuto cambiarci; per rivedere sembianze che più non ci appartengono; o per una semplice rievocazione in chiave nostalgica? Magari per la semplice curiosità di rivedere come eravamo. Chissà se le prof. Grazia Dore e Maria Crespellani, che potrebbero essere presenti, riconosceranno se stesse.

Paura di rivedersi allo specchio? No. Ho individuato la mia vecchia cinquecento, CA 106776, tra le auto parcheggiate di fronte ai cancelli del Dettori, ho rivisto la mano del poliziotto che copriva l’obiettivo della mia cinepresa durante una delle prime manifestazioni degli studenti medi. Ho l’impressione che le persone, quei giovani, e meno giovani, che compaiono nel filmato, non siano gli stessi che ancora continuo a frequentare. Il tempo non scorre al di fuori di noi, ci scorre dentro. Siamo altre persone, con lo sguardo prevalentemente proiettato su di una porzione di tempo che non ci apparterrà. Il nostro presente altro non è che l’oscillare tra il passato ed il futuro. Sarebbe semplice lasciarci dondolare. Invece, a volte, ancora ci ribelliamo.

Poi, magari, le cose andranno in altro modo, mi farà piacere ascoltare le impressioni di Giancarlo, la voce che mi ha abbandonato nel corso di questa riflessione, e di altri miei simili.

Buona visione.

1 Commento a “Una telefonata interrotta”

  1. Mario Faticoni scrive:

    Dondolanti e trapezisti, già…
    Complimenti, bello squarcio letterario.

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