Unesco e canto a tenore

16 Dicembre 2011

Graziano Pintori

Alcune considerazioni sul pastoralismo, tema iniziato a mettere a fuoco alcuni numeri fa, su questo giornale, da Natalino Piras. Il pastoralismo è il segno identitario del popolo sardo, nato da un insieme di micro economie sparse sul territorio che da millenni reggono le sorti di piccole comunità, che  in quell’organizzazione economica si sono configurate e imbevute. La eventuale scomparsa di questa struttura socio-economica sarebbe l’interruzione della storia  millenaria di un popolo: un delitto antropologico vergognoso per il pensiero e il sistema culturale occidentale. Perciò, preventivamente, si è pensato di far riconoscere dall’Unesco il pastoralismo e l’armonia del canto a tenore, perché da esso forgiato, patrimonio intangibile dell’umanità.
Un evento che aveva inorgoglito  politici e cittadini comuni, intellettuali e operatori economici, maestri di folk e animatori turistici, ecc. La ridondanza che i mas-media diedero all’evento dava l’idea che le problematiche millenarie del pastoralismo, la nostra impronta identitaria, svanissero  d’incanto: non più colonialismo culturale, linguistico, artistico, economico ma un popolo libero e di rango, perché certificato nientemeno dall’Unesco.
Essendo  protetti nella riserva dorata del pianeta, con tanto di pedigree pergamenato, possiamo continuare a dormire sonni tranquilli anche se siamo in pericolo di estinzione, come certifica l’Unesco, a causa della globalizzazione che  corrode, come un cancro, l’originalità delle nostre radici. Parlando apertamente, bisogna ricordare che questa operazione alle casse provinciali nuoresi è costata circa un milione di euro, una spesa palesemente esagerata perché ininfluente ai fini di un’azione preventiva tesa  ad arrestare la desolante estinzione del pastoralismo – canto a tenore.
Un decadimento che travolge gli aspetti umani, sociali e culturali del nostro popolo, che non può essere coperto dall’oneroso riconoscimento Unesco, tanto meno può essere accettato come “…le cavallette s’abbattono come nembi e con le loro scimitarre…” per giustificare l’atteggiamento di impotenza dei sardi davanti alla storica malasorte, in nome della quale tutto avviene e tutto deve avvenire e a noi non resta che tenere la testa bassa. Un atteggiamento da respingere perché tipico degli ignavi che si rifiutano di sentire, vedere, accusare e contrastare gli artefici di questa brutta pagina della storia sarda, persone  immanenti solo al denaro e al potere. Nel mondo sono tante le holding transnazionali  che agiscono in nome e per conto di questi due elementi,  persone che favoriscono i golpe contro la natura, le etnie, le società umane economicamente esauste o poco produttive rispetto alla voracità  del mercato globale: che trita tutto ciò che non è moneta sonante. Per tornare al pastoralismo e alla sua economia, ciò che interessa al mercato è  in primis il prezzo del latte, quei sessanta centesimi a litro imposto dagli industriali privati, per i quali “in tempus de ficu non b’at né frade né amicu”.
Come dire che non c’è intangibilità del pastoralismo – canto a tenore che tenga davanti al denaro e al potere che ne deriva. Gli industriali caseari nostrani non a caso hanno esteso i loro interessi in Romania aprendo nuovi caseifici con i soldi del latte sardo,  perché da quel territorio con certe produzioni a certe condizioni riescono ad imporre ai nostri pastori  i loro prezzi. Inoltre, grazie al potere acquisito, riescono a condizionare le politiche di mercato dei consorzi e delle  cooperative dei pastori, queste ultime ormai ridotte a mere esecutrici del prodotto, perché spogliate di qualsiasi potere decisionale e di controllo sul commercio. In questo modo, nella logica del mercato globale, il pastore, il pastoralismo, il canto a tenore sono un tutt’uno con il gregge da mungere e sfruttare finché si può. Perciò davanti all’interesse, alla forza del denaro poco importa dei nostri pastori se vengono sequestrati e riempiti di botte dalla polizia perché hanno osato attuare “il salto del fosso”, con la pretesa di urlare lungo le vie della città eterna che un litro di latte a loro viene pagato meno del costo di un litro d’acqua. Ancora più assurdo è che pari trattamento ai nostri conterranei sia stato riservato davanti alle porte sprangate della regione sarda: la casa dei sardi…di tutti i sardi. Un quadro complessivamente emblematico che denota la deriva a cui sta andando incontro il nostro pastoralismo, vittima anche di una classe politica a cui manca l’orgoglio di possedere i segni identitari del nostro essere sardi.
Una caratteristica che si evidenzia con l’incapacità, ormai storica, di elaborare e attualizzare lo Statuto della Sardegna dove il pastoralismo, con tutti i fatti, le vicende, gli avvenimenti, gli eventi che hanno caratterizzato il suo lungo cammino, può trovare in termini economici e culturali la propria allocazione naturale.
Ma si sa che la nostra classe politica, chiusa e sorda alle problematiche reali della Sardegna, tende più ad imbalsamare, con la complicità dell’Unesco nel caso specifico del pastoralismo, tutto ciò che non è Costa Smeralda, Villasimius e città metropolitana. Amen.

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