17 marzo 1861, l’Unità d’Italia: una data infausta?

16 Marzo 2021

[Francesco Casula]

Il 17 marzo 1861 è stata una data infausta, segnatamente per la Sardegna e l’intero Meridione. Quell’Unità infatti – con la proclamazione in quel giorno, da parte di Cavour, in francese, di Vittorio Emanuele II, roi d’Italie – segnerà l’inizio del colonialismo interno e il sottosviluppo dell’intero Meridione.

La Sardegna era stata ancor più sfortunata, perché fin dal 1720 era caduta sotto la dominazione brutale e sanguinaria dei tiranni sabaudi.

Quell’Unità, lungi dall’essere foriera di magnifiche sorti e progressive, si risolverà, sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della penisola e fu realizzata (grazie alle sterline della massoneria inglese e agli eserciti francesi e prussiani), dalla Casa savoia, dai suoi ministri – da Cavour in primis – e dal suo esercito, in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud, il blocco storico gramsciano, contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord, contro gli interessi del popolo, segnatamente di quello contadino e del Sud, contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a vantaggio dell’industria.

Scrive a questo proposito, nel suo capolavoro “Paese d’Ombre” lo scrittore di Villacidro, Giuseppe Dessì: “Era stato soltanto ingrandito il regno del re sabaudo”. E l’Italia era “divisa come prima e più di prima, giacché l’unificazione non era stato altro che l’unificazione burocratica della cattiva burocrazia dei vari stati italiani. Questi sardi impoveriti e riottosi non avevano nulla a che fare con Firenze, Venezia, Milano, con Torino, che considerava l’Isola come una colonia d’oltremare, o una terra di confino. In realtà fra gli stessi italiani del Continente, non c’era in comunione se non un’astratta e retorica idea nazionalistica, vagheggiata da mediocri poeti e da pensatori mancati”. E conclude: ”L’unità vera, quella per la quale tanti uomini si erano sacrificati, si sarebbe potuta ottenere soltanto con una federazione degli stati italiani”.

Altro che persistere con l’ubriacatura unitarista: con buona pace di Mattarella e di tutti i Partiti italici ancora incatenati al mito, perverso e fallimentare, della Repubblica, “una e indivisibile”! Tanto meno segnò una rivoluzione. E neppure un semplice cambiamento. Da questo punto di vista ci viene in aiuto un altro grande romanziere, questa volta il siciliano Giuseppe Tomasi di Lambedusa  con “Il Gattopardo”: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” affermerà Tancredi, nipote di Don Fabrizio, principe di Salina e protagonista del romanzo.

E tutto rimarrà come prima: anzi, i grandi proprietari terrieri continueranno a conservare e detenere i vecchi privilegi economici e sociali. E ne otterranno di nuovi, quelli politici: saranno addirittura nominati senatori del regno. E il Sud dei contadini? Avrà “la libertà, la sicurezza, tasse più leggere”, come pure i suoi “liberatori” avevano promesso? Il contrario.

“Lo stato italiano che si formava sarà rapace con leggi di espropria e di coscrizione che dal Piemonte sarebbero dilagate sin qui, come il colera. Vedrete, fu la sua non originale conclusione, vedrete che non ci lasceranno neanche gli occhi per piangere”.

E i plebisciti? Un imbroglio: anche i no diventano sì: Dice un personaggio del romanzo che aveva votato no :”Il mio no diventa un sì…ora tutti savoiardi sono!”. Quell’imbroglio continua anche oggi: sono passati 160 anni: ma ancora savoiardi siamo! Nonostante la loro cacciata nel 1946.

Essi infatti continuano a “occupare” le nostre Vie e Piazze. Addirittura  in Piazza Yenne a Cagliari,campeggia bene in vista la statua di Carlo Felice, Quella statua – come tutte le statue sabaude – sta ancora lì, a “segnare” e “marchiare” il territorio, a dirti, dall’alto, che lui è il regnante e tu sardo, sei ancora suddito, unu tzeracu. Dunque devi continuare a omaggiarlo, a riconoscerlo come tale. Anche se da vice re come da re è stato il tuo carnefice e un tiranno famelico, ottuso, ultrareazionario  e sanguinario.

Ma usque tandem?

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