La salute abitata

1 Agosto 2011

Maria Grazia Giannichedda, Daniele Pulino

“Voi dovete fare qualcosa, come cittadini. Perché non posso tornare a casa? Ho pagato l’affitto, ho un contratto non facevo del male a nessuno”. Sassari. Sono le parole di Anna che dal 6 luglio scorso sta in una delle “comunità protette” nell’ex ospedale psichiatrico di Rizzeddu dopo che l’appartamento dove viveva è stato sgomberato da NAS. 
Roberto invece  “è ripiombato in uno stato di agitazione e confusione che da un anno non vedevamo più” racconta suo fratello, che era presente allo sgombero e al trasferimento a Rizzeddu e che proprio non si dà pace.
Abbiamo impiegato oltre sei mesi per trovare una soluzione appropriata per Roberto, lavorando con il centro di salute mentale e soprattutto consultando lui e ottenendo la sua approvazione. Ma è possibile che qualcuno abbia il diritto e il potere di decidere di cambiare le nostre scelte senza consultarci né darci spiegazioni, senza consultare né informare Roberto, e senza considerare le sue condizioni, enormemente migliorate da quando è andato a vivere in questa casa?”
Da più di un anno cinque donne e quattro uomini, seguiti da tempo dal Centro di Salute Mentale, erano andati a vivere in due appartamenti in città. Il Centro aveva sostenuto questo percorso e continuava a seguirli, mentre una cooperativa sociale li assisteva nella vita quotidiana.  Un progetto intelligente di co-abitazione, in cui le persone mettevano insieme le proprie risorse economiche per vivere insieme con un’assistenza senza pesare sul bilancio dell’azienda sanitaria. L’inchiesta giudiziaria che ha portato alla chiusura delle due case, e che sta aprendo un dibattito  si basa sulla convinzione che siano strutture sanitarie abusive per il fatto che ci vivono persone in trattamento psichiatrico, che sono automaticamente “pazienti” di una “struttura di ricovero”, nella quale il personale “addetto al controllo” dovrebbe “avere il titolo di infermiere professionale”. Questo assunto però non tiene conto delle esperienze simili che si sperimentano da molto tempo, in Italia e non solo, in cui il servizio pubblico agisce da promotore e garante di progetti di vita autonoma con servizi di assistenza.  Questi progetti non hanno vita facile, in salute mentale in particolare: infatti una buona parte degli  psichiatri stenta tutt’ora a uscire dall’orizzonte del manicomio e non è capace di costruire, e talvolta ostacola, percorsi di uscita dalla dipendenza, dall’invalidità, dall’esclusione.
Si tratta di una lotta tra visioni diverse del disturbo mentale, della cura e dell’organizzazione dei servizi che si svolge da più di quarant’anni in Italia, in Europa e in gran parte dei paesi democratici. Nessuna meraviglia quindi che si svolga anche a Sassari, e lo sgombero del 6 luglio ne è in fondo un episodio, peraltro emblematico: persone che avevano iniziato un percorso di autonomia e di inclusione, e che si mantenevano con proprie risorse, sono state riportate nell’area dell’ex manicomio, in strutture che ne riproducono i caratteri e che gravano sui soldi pubblici con un costo più elevato. 
Un episodio dal quale il mondo della psichiatria locale non è innocente. I fatti di Sassari arrivano in momento di forte arretramento, nella città e nella nostra regione, delle politiche sanitarie e sociali e di salute mentale. Negli anni della giunta Soru la salute mentale è diventata uno degli obiettivi centrali delle politiche sanitarie della regione, sono state riconvertite risorse, aperti nuovi servizi pubblici e varato un piano sanitario, che per le questioni della salute mentale è tra i più avanzati in Italia. Tutto questo apriva grandi speranze di cambiamento in un settore che la politica isolana aveva per lungo tempo abbandonato a sé stesso.
Negli ultimi anni il lavoro dei servizi territoriali è impoverito e contrastato, riprendono forza gli interventi di contenzione fisica dei ricoverati e l’abuso di farmaci, si continua a destinare ingenti risorse per ricoveri senza speranza nelle cliniche private e in piccoli contenitori assistenziali. Tutto questo senza che la normativa regionale abbia subito alcuna modifica e mentre il lavoro degli operatori che avevano creduto nelle possibilità di cambiamento viene ostacolato da una violenza sottile e strisciante che impedisce di svolgerlo con tranquillità.  
A partire dallo sgombero si sta avviando un importante dibattito su queste questioni che coinvolge le istituzioni cittadine.
Alcuni consiglieri comunali hanno presentato un ordine del giorno sulla vicenda, e il prossimo 2 agosto la commissione politiche sociali del comune di Sassari ascolterà sulla vicenda le associazioni familiari e  il comitato a Casa Mia, nato da associazioni e singoli cittadini  per opporsi allo sgombero del 6 luglio (il cui documento fondativo è stato pubblicato anche sullo scorso numero del Manifesto Sardo) che sta documentando le esperienze di abitare condiviso presenti in tutta Italia, simili a quella che vivevano le donne e gli uomini privati della propria casa e che speriamo possano presto farvi ritorno  (http://comitatoacasamia.blogspot.com/     https://sites.google.com/site/comitatoacasamia/  ). 
Si tratta dunque di un momento importante per riaprire il dibattito sul diritto ad abitare per le persone con disturbo mentale delle persone anziane e con disabilità e per proporre politiche di salute mentale e di inclusione sociale che contrastino forme di istituzionalizzazione dannose sotto il profilo terapeutico, insostenibili economicamente per il nostro sistema di welfare e  incompatibili con il rispetto dei diritti di cittadinanza.

per aderire al comitato “A CASA MIA” [email protected]

1 Commento a “La salute abitata”

  1. Red scrive:

    Qua un’importante evoluzione. Ci si augura che a questo seguano fatti concreti in difesa dei diritti violati.
    http://www.sassarinotizie.com/articolo-6310-salute_mentale_il_comune_e_vicino_ai_malati__la_asl_ha_sbagliato_.aspx?fb_ref=ArticleBottom%3BArticleBottom&fb_source=home_oneline

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