I have a dream. Lettere di una testimone del Novecento

16 Aprile 2020
[Jacopo Onnis]

«Più che una lettera questa è una confessione. Io confesso il sogno che ho creduto potessimo far diventare realtà. Un mondo dove a difendere strenuamente, accanitamente, i diritti della gente di colore sono i bianchi; …dove sono i sani quelli che combattono per i malati; …dove sono gli uomini che testardamente si impegnano per i servizi sociali, per gli asili nido, per una maternità che non sia una punizione (di Dio, del caso, fate voi); dove sono gli eterosessuali che combattono contro la discriminazione degli omosessuali; dove non ci fosse mai bisogno di nessuna corporazione (delle donne, dei neri, degli omosessuali), dove il nemico fosse uno solo: quello che nega i diritti altrui e sfrutta i più deboli. Il risveglio è stato brusco».

A scrivere è Licia Priami, classe 1946, laureata in Chimica, redattrice di testi scientifici presso la Uses-Utet (Firenze), rappresentante aziendale della Cgil, militante di base del Pci nella sezione fiorentina di Coverciano di cui sarà anche segretaria. Muore a 66 anni, nel 2012, stroncata da un tumore.

Silvia Franchini, che ha insegnato Storia del giornalismo presso l’Università di Firenze e Monica Pacini, docente di Storia contemporanea e di Storia del giornalismo in quello stesso ateneo, amiche personali di Licia, hanno raccolto in un volume (Io confesso un sogno. Lettere politiche 2001-2012, Prato, Pentalinea, 2018, pp.254) un’ampia selezione delle lettere inviate al quotidiano «l’Unità», ma anche a parenti e amici. Non solo la cronaca di un decennio ma anche la testimonianza di un lungo impegno contro ogni ingiustizia e per offrire a tutti una cultura politica di sinistra ritenuta lo strumento più idoneo per analizzare e trasformare la realtà.

«l’Unità» per Licia non è un semplice foglio politico ma anche un interlocutore privilegiato, un mezzo di comunicazione di massa, un simbolo, uno strumento centrale nella storia del partito, indispensabile nella costruzione di quella “diversità” comunista ripetutamente sottolineata da Enrico Berlinguer.

La morte ha risparmiato a Licia la delusione più amara: la definitiva chiusura del quotidiano il 3 giugno 2017 dopo numerosi e travagliati passaggi di proprietà. Più ancora della svolta della Bolognina quell’evento testimoniava lo sconquasso identitario della sinistra italiana. Come osservato da Michele Serra, si trattava di un delitto perfetto, immediatamente identificabile l’assassino: «…la sinistra nel suo complesso, dal primo dirigente all’ultimo elettore, che ha progressivamente rinunciato, negli anni, a credere in un giornale che fu intensamente suo. E ha smesso di comprarlo».

Cultura, intelligenza, ironia, passione politica: gli strumenti con cui Licia osserva la realtà e le vicende del suo partito. È sempre vigile e combattiva. Pone interrogativi, pretende risposte, che però non arrivano mai. E allora esplodono irritazione e rabbia.

In una lettera del 27 maggio 2001 alle Direzioni dei Democratici di sinistra, di Rifondazione comunista, dei Comunisti italiani, scrive: «guardo il disastro e mi si affollano nel cervello tutte le cose che ho visto fare da voi in tutti questi anni e alle quali mi sono inutilmente opposta e ora voglio riassumerle a futura memoria; alla rinfusa, come mi si precipitano nella tastiera».

Netto il suo rifiuto della svolta di Occhetto: la mutazione da Pci a Pds, Ds, Pd è la conferma della dismissione dell’identità comunista, il taglio dei legami con la base che era stato il nerbo del Pci e che Licia definisce «gli orecchi che ascoltano, le bocche che parlano, le braccia che lavorano».

Altrettanto netta la critica al sistema maggioritario ritenuto causa determinante della crescente personalizzazione della politica e della trasformazione del Pci in un partito leaderistico e di opinione.

Lo smantellamento della cultura politica comunista emergeva poi chiarissimo dalla subalternità alla logica del libero mercato e dalla scomparsa di un punto di riferimento essenziale per il partito: il mondo del lavoro per cui Licia aveva lottato come dipendente, come sindacalista, come militante politica.

Scrive: «I cantori del nuovo che avanza rimproverano al sindacato la sua arretratezza perché si ostina a credere che con il padrone si contratta, si discute e si firmano pure gli accordi, ma lui resta il padrone (sono debolezze, si sa)».

Quando le viene diagnosticato un tumore al polmone non si lascia vincere dallo scoramento; continua a leggere, a scrivere, a guardare film, a seguire le vicende politiche. Opera una sorte di separazione tra la propria persona e la patologia che l’aveva colpita. Da una parte ci sarebbe stato il tumore – scriva a un’amica – dall’altra lei, con i suoi interessi, passioni, scelte, amici, affetti. Insomma «il tumore può abitare a un piano diverso da quello dove abito io».

Con una lezione di dignità, di riserbo, di consapevole serenità, si conclude una vicenda umana sempre segnata dalla passione culturale e politica dalla parte dei più deboli. In quelle lettere non solo il senso di una intera esistenza ma anche un pezzo della nostra vita.

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