A proposito di scuola, classi sociali, etnie

7 Dicembre 2021

[Gianni Loy]

La frase contenuta nella presentazione del liceo Pacinotti di Cagliari – la maggioranza degli studenti del Pacinotti appartiene a un tipo  “medio alto” e gli stranieri sono  una piccola minoranza limitata a poche etnie – è innegabilmente discriminatoria.

Tuttavia, pur essendo padre di un alunno del Pacinotti, peraltro anche straniero, in un primo momento non mi sono scandalizzato più di tanto. Il messaggio è inaccettabile. Tuttavia,  conoscendo il perverso meccanismo degli stereotipi, pensavo di poterlo rubricare tra gli incidenti,  sono cose che  capitano, ho immaginato che chi ha redatto quelle righe non si sia reso conto, al momento, della gravità.

Ho provato tristezza, al constatare quanto  tempo sia trascorso inutilmente.  Perché la pretesa di un sistema scolastico suddiviso in canali paralleli, uno per i figli della borghesia e uno per i figli del popolo, è profondamente radicata nella storia dell’istruzione. Tanto che, a volte, si presenta  persino all’interno di uno stesso istituto, nell’articolazione delle sezioni, alcune riservate, con i migliori professori, ai figli della borghesia, ed altre ai figli del popolo, oggi in parte rappresentati dalle altre etnie.

Un preside “storico”, il prof. Rascel, nel 1968, a chi gli chiedeva se fosse vero che  all’interno del liceo Dettori esistesse una “classazione” tra le sezioni,  a seconda della provenienza sociale, ammetteva che “di fatto esiste, come conseguenza dell’interessamento di  molti genitori che, al momento della prima iscrizione dei propri figli, chiedono, aspirazione in fondo legittima, di ottenere che i propri figli frequentino  classi con docenti notoriamente apprezzati e particolarmente preparati”. Quelle parole di un grande preside, che gode della mia stima,  si possono ancora ascoltare in un documentario dell’epoca, dal titolo “Dove va la scuola?” recentemente restaurato e disponibile presso la cineteca sarda.

Un vizio antico, quindi, che, come il loglio, continuamente riaffiora. Il fatto che la frase incriminata sia stata eliminata mi ha fatto sperare che la scuola avesse preso coscienza della pericolosità di quel messaggio e che, approfittando dell’incidente, magari si impegnasse in qualche attività “riparatoria” sul piano culturale, a partire da una pubblica  rettifica. Mi attendevo, insomma, delle scuse, indirizzate a quella piccola minoranza di stranieri e di appartenenti ad altre etnie offesi dal messaggio, accompagnate da un’iniziativa positiva ispirata al fondamentale diritto all’uguaglianza  e al  principio che “un ambiente scolastico variegato favorisce il confronto, l’integrazione  e la socializzazione”, prendendo in prestito  il principio accolto nel manifesto di un altro istituto cittadino.

A lasciare esterrefatti non è tanto tanto l’episodio in sé, bensì la giustificazione fornita dalla scuola: si tratterebbe soltanto di un’incomprensione.  Solo un’incomprensione?  Quando mai? Quelle parole possono produrre solo l’effetto di attrarre chi vorrebbe per i propri figli una scuola ancora classista e scoraggiare chi, invece, pretende che un immigrato, o addirittura uno “zingaro”, possano frequentare una scuola di elevato livello e quindi destinata, quasi  naturalmente,  ad una classe di tipo medio alto. Per le élite esistono ancora i collegi stranieri.

Il fatto che il Ministero chieda agli istituti di indicare “il contesto sociale e culturale della scuola in funzione dei servizi che vengono offerti”, oltretutto, non significa affatto, come si vorrebbe far credere, che gli istituti debbano dichiarare la composizione sociale e la quota di stranieri iscritti. La frase incriminata, a quanto pare, è stata quindi ritirata – senza alcuna spiegazione sul sito – non perché la scuola ha preso coscienza del carattere inequivocabilmente discriminatorio del messaggio, ma semplicemente perché si è trattato “di un’incomprensione. Niente più!”.

Marco Pitzalis,  nelle righe dell’Unione sarda, spiega con precisione il processo che – anche grazie a messaggi di questo tenore –  porta ad un’autoselezione di tipo classista. Un  processo, del tutto analogo a quello descritto, oltre mezzo secolo fa, dal preside del Dettori, che i sociologi denominano segregazione scolastica. Processo che è compito dei sociologi descrivere, ma che i cittadini e le cittadine democratiche che intendono far vivere la Costituzione repubblicana devono combattere con forza.

E pensare che ho iscritto mio figlio al Liceo Pacinotti attratto dalle buone referenze sugli strumenti formativi e per i brillanti esiti raggiunti dagli studenti provenienti da quell’istituto; non certo perché frequentato da una classe medio alta e con pochi stranieri. Anzi, se avessi dovuto sceglier alla luce di quei criteri, mio figlio che non avrebbe mai messo piede in quella scuola.

In conclusione, non credo proprio che il caso possa chiudersi con la formula, logora e abusata, del presunto fraintendimento. Credo che l’opinione pubblica abbia il diritto non ad una giustificazione  formale, bensì ad una pubblica ed esplicita pronuncia da parte della scuola. Una pronuncia che chiarisca quale sia l’indirizzo formativo dell’istituto in materia di inclusione, di multiculturalità, di contrasto ad ogni forma di discriminazione. Una pronuncia che dichiari, soprattutto, se la prevalente appartenenza degli studenti del Pacinotti ad una classe medio alta e la limitata presenza di  stranieri e di altre etnie, debba essere considerato un fattore di vanto e di richiamo o se, al contrario, o non possa risultare di ostacolo  ad un processo formativo  ispirato ai principi ed ai valori della nostra Carta costituzionale.

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