Archeologie in comune

16 Febbraio 2012

Marcello Madau

Da diverso tempo si nota un fenomeno che – per chi ha vissuto per decenni il disinteresse quasi totale sull’archeologia da parte dei territori e quindi della gente – non manca di creare qualche stupore. Oggi molte questioni archeologiche sono spesso alla ribalta della discussione, dei mass media. Animano tesi contrapposte, influenzano la politica. Capita persino a qualche umile operatore, come chi scrive, di essere direttamente e molto cortesemente contattato, dopo alcuni interventi su Monti Prama sulla stampa sarda e nazionale, dalla Direzione Generale del Ministero ‘semplicemente’ per mostrare l’attenzione al dibattito in corso.
Questo fatto relativamente nuovo, non più di una trentina d’anni di gestazione, si verifica perché, pur fra molte contraddizioni (e a volte perché molte altre opzioni di ‘sviluppo’ falliscono), si radicano nelle comunità meccanismi di autocoscienza identitaria. Si va a percepire il senso dei beni culturali come beni comuni, e la dimensione professionale dell’archeologo si emancipa dalle logiche vincolistiche trasformandosi in operatore del territorio e al suo servizio.
La forma obsoleta della classe politica e delle istituzioni però, se risponde in maniera più attenta (i beni archeologici, anche attraverso battaglie talora molto dure, acquistano il ‘primo piano’ nei quadri urbani e generalmente territoriali), lo fa in modo ampiamente inadeguato all’importanza della risorsa e del suo senso territoriale.
Questo filo comune mi pare unisca tre esperienze assurte negli ultimi anni a grande rilievo, non solo sardo: mi riferisco al Castello aragonese di Sassari, al complesso scultoreo di Monti Prama e infine alla necropoli cagliaritana di Tuvixeddu.
Nel primo caso rileviamo innanzitutto che l’amministrazione comunale guidata da Gianfranco Ganau ha operato per il recupero e non per l’occultamento degli importanti resti medievali. Non sembri poco. E che il castello, meritatamente, è stato al centro della manifestazione nazionale ‘Abbracciamo la cultura’ promossa dall’Associazione Nazionale Archeologi, dalle associazioni ambientaliste e dalla CGIL. Ma sul fronte della valorizzazione del monumento ci sono molte cose da eccepire: l’attuale sistemazione nella piazza già nota, non a caso, come Piazza Castello, lascia a desiderare. Pare che nel gruppo di progettazione non vi fosse a pieno titolo la figura dell’archeologo. La soluzione, pur con alcuni spunti interessanti, ha un impatto discutibile, e occulta in parte il principale fuoco prospettico ottocentesco, qualificante l’impostazione della coeva urbanistica torinese, che spinge dalla stessa piazza a tutta via Roma, attraverso la Piazza d’Italia.
E infine, dopo le discussioni che nacquero al tempo dei primi ritrovamenti (è bene ricordare che essi emersero dopo molto ostruzionismo da parte di alcuni assessori della precedente giunta Ganau), è mancato il salto di qualità che avrebbe portato un concorso di idee aperto ed a un coinvolgimento diretto del primo soggetto titolare del bene comune: la comunità residente e tutti gli operatori dei beni culturali. Era successo qualcosa di simile per la ripavimentazione della Piazza d’Italia, e si erano evitate alcune brutture. Si sarebbe dovuto riproporre tale prassi.
Delle statue di Monti Prama – anch’esse recuperate con l’azione congiunta di grandi battaglie culturali e il reperimento dei fondi necessari per il restauro – abbiamo scritto a più riprese, denunciando l’errata e grave spartizione concordata fra Regione Autonoma della Sardegna, Soprintendenza Archeologica di Cagliari e Oristano e Comune di Cabras. Lo Stato interviene con la discussa Arcus, eppure persino ai vertici degli uffici ministeriali pare si pensi che la divisione in effetti non è corretta. Ma si sarebbe scelto di non intervenire nelle discussioni fra i vari soggetti territoriali. Se questo è vero, male fa il Ministero, e anche la Regione Autonoma della Sardegna, a non intervenire come garante della inscindibilità di un contesto (o se vogliamo, lo dico provocatoriamente, di una collezione), e nello stesso tempo a non vigilare adeguatamente che le statue tornino tutte, e in maniera dignitosa,  nel territorio dal quale provengono. Malissimo opera il Comune di Cabras, con il principio ‘meglio un uovo oggi che una gallina domani’, ad accettare solo una parte delle statue: sanzionando nei fatti, con molta probabilità, la rinuncia a tale splendido bene comune, relegandolo a letture antiquarie e operando una inaccettabile cesura dal contesto storico e paesaggistico dal quale provengono.
Infine, Tuvixeddu: una battaglia che ci ha visto in prima fila (ricordiamo il nostro dossier). In questo numero interviene Stefano Deliperi, con un articolo che è un saggio giuridicamente adeguato alla delicatezza della problematica. Una recente delibera della giunta guidata dal giovane sindaco Massimo Zedda è al centro di vivaci discussioni, in quanto darebbe una lettura assolutamente riduttiva della tutela del contesto che ospita e ‘circonda’ la necropoli.
Chi conosce le normative urbanistiche e le loro relazioni con il PPR, soprattutto nella cosiddetta ‘seconda perimetrazione’, sa che ad esse può riferirsi la delibera di gennaio. Ma la sensazione è che la politica dei beni comuni, che dovrebbe mirare ad una tutela ben più ampia, e non solo diretta, dell’area di Tuvixeddu, non emerga con la dignità attesa da una giunta progressista.
Io credo che in passato siano stati fatti troppo errori, anche in buona fede, nel tentativo di strappare non solo Tuvixeddu, ma tutto l’areale, ad un devastante programma di cementificazione: la stessa giunta Soru, negli ultimi mesi, aveva proposto a più riprese aree di scambio con i costruttori al posto di quella di Tuvixeddu, che, a detta di molti, avrebbero – pur in ragione di un gravissimo accordo di programma come quello di vent’anni fa – maturato diritti che potrebbero creare una grave crisi finanziaria al Comune di Cagliari. I pronunciamenti recenti del Consiglio di Stato, lo spirito e la lettera delle leggi di tutela, pur di conforto a una battaglia meno prudente, non bastano.
E anche in questo caso la politica e le istituzioni sembrano assai inadeguate a cogliere la natura della posta in palio, ovvero la necropoli di Tuvixeddu come bene comune. Se infatti appare positivo, nella sostanza, il tentativo della giunta Zedda di riportare il Comune al centro del ‘tavolo’, c’è il rischio molto concreto che le preoccupazioni finanziarie mettano in secondo piano la posta in palio prima indicata. E si liberi di fatto la Regione dall’unico ruolo che dovrebbe svolgere: garante del bene comune in appoggio alla comunità alla quale appartiene, promuovendo concretamente – e non con episodici e velleitari ordini del giorno, come quello del marzo del 2010 – l’acquisizione pubblica di tutta l’area. Un’acquisizione accompagnata da seri processi di partecipazione della comunità alle decisioni ed ai loro profili, con una discussione di merito sull’area e sulla città, sul tipo di parco da realizzare, sulla qualità della tutela e della valorizzazione; su una partecipazione pubblica condivisa alle scelte urbanistiche. Puntando infine all’affidamento della gestione a società e/o cooperative, possibilmente di giovani ed esperti del settore.
Noi sappiamo che il sistema della tutela classica, nella logica ‘Uffici centrali /Istituti Centrali/Organi periferici dello Stato’, è in crisi irreversibile, inadeguato non solo a tutelare il patrimonio in carico (il che non è certo questione di poco conto) ma soprattutto a comprendere la natura di bene comune dei beni culturali e del paesaggio. La gestione diretta dei beni comuni è qualcosa di più e di ben diverso di un velleitario e ideologico passaggio, tutto nella sostanza di matrice statalista, da Stato a Regione. Ma sono urgenti immediati, nuovi tavoli di concertazione per andare, intanto, in questa direzione.
Azioni creative di coinvolgimento della comunità, che alcuni comuni (come nel caso di Napoli) stanno sperimentando.
I beni archeologici come beni comuni, come beni della conoscenza, pretendono – per meritare tale attributo – ben altri livelli di democrazia e di condivisione delle scelte, e la volontà di trasformare i cittadini/le comunità da consumatori a soggetti attivi in grado di produrre e governare meccanismi di autogestione. I tre casi che così sommariamente abbiamo descritto mostrano i gravi ritardi della politica, e di una politica orientata sulla comprensione e l’organizzazione, anche gestionale, su questi temi.

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