Attualità di quell’assalto al cielo

25 Aprile 2020
[Luciana Castellina]

No, non avrei mai immaginato che un giorno avrei finito per stabilire una connessione fra un virus e il 25 aprile. E invece ci sta capitando a tutti. Dipende dalla parola «resistenza»: anche per sconfiggere il coronavirus bisogna resistere, a lungo,tutti insieme, senza farsi travolgere dall’angoscia. E però quella parola «resistenza» non spiega la Resistenza con la R maiuscola, non l’ha mai spiegata compiutamente, anche se oramai, dopo 75 anni, abbiamo finito per non badarci più.

Perché diamo per scontato che tutti sappiano che quell’espressione racchiude molto di più: con la Resistenza non ci si limitò infatti a respingere un nemico, ma si lanciò una offensiva così azzardata che oggi a raccontarla ai nipotini sembra il romanzo fantascientifico di una impresa di Superman.

Tornate a pensarci: una quantità di ragazzi nell’età della leva, che avevano conosciuto solo il fascismo, abbandonano, rischiando la fucilazione per diserzione, i reggimenti dove erano stati inquadrati o le case dove erano riusciti a nascondersi, per andare in montagna, male armati e senza alcuna autorità che potesse legittimare la loro azione se non quella di pochi anziani appena usciti di galera o dall’esilio – degli sconosciuti antifascisti – e senza sapere cosa avrebbero trovato, o loro stessi costruito, nell’ipotesi vaghissima di una viittoria.

Un assalto al cielo, assai diverso da quanto si trovarono a fare in quasi tutti gli altri paesi europei i partigiani che combatterono per ripristinare un potere legittimo, il proprio stato democratico spodestato dall’usurpatore, e dunque a questo fedeli; e da questo «coperti». Da noi no, questa copertura non c’era, e perciò non si trattava di «resistere» ma della sconsiderata ambizione di dar vita a qualcosa che non si sapeva cosa avrebbe potuto essere.

Si dirà che al virus invece si deve solo resistere, in nome del ritorno al modo di vita preesistente. E invece così non è e celebrare il 25 aprile oggi vuol dire come non mai far rivivere lo spirito di quella che sappiamo esser stata non semplice resistenza ma azzardata offensiva per inventarsi uno stato che tutti potessero sentire legittimo perché – a differenza del passato – nasceva dall’autorganizzazione del proprio territorio, dall’assunzione di una responsabilità collettiva, posta in atto da donne vecchi bambini per rispondere alle esigenze, non della propria famiglia, ma della comunità tutta: il «noi» che finalmente prevaleva senza riserve sull’«io».

Perché fra il ’43 e il ’45 non operarono solo le pur essenziali eroiche formazioni militari, ma un ruolo decisivo lo ebbe quella che un glorioso comandante partigiano definì «società partigiana». L’antifascismo, l’ idea di democrazia che ha nutrito, hanno in Italia le radici in questo vissuto collettivo, che fece sì che tutti – come scrisse Calamandrei – si sentissero «attraverso scelte che nascono dalle piccole cose quotidiane, protagonisti di un nuovo stato in formazione».

Ho fatto questo lungo discorso per dire qualcosa che vi sembrerà enfatico, ma io non credo lo sia. Per battere davvero il coronavirus non si tratta di resistere fino a quando non arriverà il vaccino. Se vogliamo che epidemie come questa non si ripetano sempre più di frequente dobbiamo assumerci la responsabilità di affrontare tutti l’enorme compito della transizione a un sistema diverso.

Dobbiamo diventare tutti «partigiani», per imporre a noi stessi, e a chi si oppone al cambiamento indispensabile, di vivere diversamente. E cioè prendere sul serio il discorso ecologico e quello sociale che come possiamo constatare anche in questa occasione sono strettamente connessi.

È un tema sempre nominato ma mai realmente tradotto in azioni concrete. Il virus ci ha insegnato che – come ha detto papa Francesco – «non si può rimanere sani in un mondo malato». Che l’ecosistema – che interconnette umani, animali e natura – si sta sgretolando per l’impatto delle nostre azioni: cementificazione, inquinamento, allevamenti intensivi, ossessiva mobilità, ma anche un livello insostenibile di consumi largamente superflui, che hanno già mangiato gran parte del le risorse del pianeta.

Per impedire che dopo aver trovato un buon vaccino, e prima che un’altra epidemia si ripresenti, come inesorabilmente avverrà a tempi ravvicinati se torniamo tranquilli alla «normalità», dobbiamo agire. Sia individualmente, cambiando i nostri comportamenti, sia, soprattutto, organizzandoci per lottare affinché cambi questo sistema che uccide natura ed umani, e fra questi in particolare i più poveri.

E – lasciatemi dire – di un sistema in cui impunemente un grande gruppo industriale finanziario – gli Agnelli della Fiat – che con un cenno possono cambiare i direttori dei giornali non ubbidienti, io ho paura: hanno ormai in mano tutta la grande stampa italiana e dunque il potere di imporci di non toccare il sistema che garantisce il loro profitto ma che è anche quello che questo virus ci ha portato.

Come accadde l’8 settembre 1943 la responsabilità di immaginare, e gettare le basi, di un nuovo mondo cade su ognuno di noi.

Da decenni ormai inveiamo contro la globalizzazione liberista che è causa prima di quanto sta accadendo. Ma fino ad ora le nostre sono rimaste grida a vuoto. Virus corona ci sta aiutando a rendere più comprensibili i nostri argomenti. Ma senza quel salto di soggettività che produsse la Resistenza non succederà nulla.

All’incontro con le vecchie donne della Repubblica che promuove ogni 8 marzo il presidente ricordo che una volta una giornalista si avvicinò col microfono a Lidia Menapace, presentandola come «ex partigiana». Ma lei – chi la conosce sa come è fatta – la interruppe irritata dicendo: «Scusi, io non sono ex, io sono ancora partigiana». Noi potremo rispondere: siamo apprendisti.

L’impegno oggi è di diventare tutti partigiani (o almeno apprendisti).

(Intanto potremmo iscriverci tutti all’Anpi. Io l’ho fatto poche settimane fa).

Da Il manifesto

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