Basta la parola

16 Gennaio 2009

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Gianni Loy

Mi chiedo perché, in questi ultimi giorni, la crisi economica non sia più sulle prime pagine dei media. Pareva crollasse il mondo. Ed invece è crollata solo la borsa. Il mondo crolla, semmai, sotto le bombe che devastano persino le sedi e le scuole dell’Onu. MI chiedo perché, in questi ultimi anni, la delegittimazione delle organizzazioni sovranazionali, l’Onu, per intenderci, non sia più all’ordine del giorno. Eppure è stato oggetto di appassionato dibattito. Forse che tutto passa, tutto scorre, come insegnava Eraclito secoli orsono? Ma non è proprio così. Né la crisi dell’Onu né quella economica sono passate. Piuttosto, una volta che se ne sia parlato abbastanza, è possibile che la gente si stufi, che abbia bisogno d’altro: le vacanze milanesi di Beckam, o l’ouverture  del Grande fratello che si porta dentro casa persino un rom , uno zingaro. Ma niente paura. E’ un Rom sterilizzato, di quelli che pensano ancora che gli zingari rubino i bambini e che nei campi di cui è recente l’attualità in Italia non c’è mai neppure passato. Ma la delegittimazione delle Nazioni Unite è più che mai vera: la gente orami, semaforicamente, può persino andare a pisciare impunemente davanti al portone del palazzo di vetro. Come siamo caduti in basso! La crisi, del resto, non è certo terminata con  la fine delle scosse telluriche che hanno investito le borse valori e provocato il fallimento di certi signori bancari che, sino al giorno prima facevano i guru dando i voti a chi cercava di sbarcare il lunario con i bilanci del proprio paese. Las disoccupazione aumenta e la povertà si diffonde. Ma ciò che conta continua ad essere, soprattutto, la capacità di stupire, di inventare il rimedio, la ricetta miracolosa, la pietra filosofale in grado di risolvere tutti  i problemi. Noi (o loro), oltretutto, siamo un popolo di santi, eroi, navigatori. Le carte si scompaginano così in fretta che ci viene difficile indovinare dove è andata a finire la regina di cuori. E se anche stessimo attenti e potessimo scoprirlo, il compare di chi maneggia le tre carte riesce a distrarci, anche solo un attimo, per consentire una fraudolenta sostituzione. Come se niente fosse. Sino all’altro giorno, i signori che ci governano avevano scoperto la ricetta magica nel prolungamento della giornata lavorativa. Ed avevano incominciato a premere sui lavoratori, soprattutto, con la carota, per spingerli a fare più straordinari, a restare più a lungo nel posto di lavoro. Ma neppure il tempo di capire se quelle misure abbiano prodotto qualche effetto, ecco che si cambia scenario. Contrordine: A le contraire. Gli stessi signori ci assicurano che la soluzione della crisi si trova esattamente all’opposto. Non lavorare di più ma lavorare meno, ridurre la durata della settimana lavorativa. Ma come? Non era lo slogan dei vecchi fanatici rossi: lavorare meno lavorare tutti? Ebbene. E’ proprio così. La destra scopre, con più di qualche anno di ritardo, che con quella ricetta si può risolvere la crisi.  E ce la vengono a dire proprio il giorno dopo del precedente proclama, senza neppure un piccolo rossore sulle guance. Potremmo anche rimetterci a discutere, anche se la teoria era stata analizzata  a fondo a suo tempo, anche se, ancora una volta, non è altro che lo scopiazzare da un sistema politico bicolore, come quello tedesco, da cui è possibile estrarre le ricette dando loro la colorazione che si preferisce. Certamente la riduzione dell’orario continua ad essere una ricetta buona: lavorare meno per lavorare tutto. Ma è anche vero che può esser declinata con differenti maniere. Perché se comporta una perdita retributiva compensata dall’intervento dello Stato (CIG applicata al numero di ore di riduzione dell’orario)  finisce per essere una misura di carattere assistenzialistico, piuttosto che una misura strategica che tenga conto dei mutato contesto socio-economico e prospetti, seppur vagamente, un differente modello di sviluppo. Né si può dimenticare, se si vuole anche tristemente, la vicenda non certo esaltante dei cosiddetti “contratti di solidarietà”, costruiti sul presupposto dell’esistenza di una solidarietà (di classe, avremmo detto)  che, ahinoi, non si è rivelata tale. Si trattava del modello laddove lavorare meno per lavorare tutti, presupponeva un forte spirito di vera solidarietà. Ma non è più tempo di sacralità. Ci dicono che presto sulle fiancate dei mezzi pubblici potrebbe comparire una scritta per ammonirci che Dio non c’è. E’ il pragmatismo estremo, figlio di una ideologia falsamente liberale e neppure veramente liberista che porta le classi dirigenti a barcamenarsi come possono. E ‘ il primato dell’immagine e del simbolo. Conta stupire. E ci stupisce, in realtà, che un governo di centro destro rispolveri uno slogan al quale, per il profondo significato che possedeva, eravamo persino affezionati. Del resto, a ben vedere, sono soltanto parole. Non c’è bisogno di dimenarsi tanto, di affannarsi per scoprire la realtà sottostante. Ce lo ha insegnato, a suo tempo, il buon Tino Scotti quando faceva la reclame per il lassativo della Falqui: Basta la parola!

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