Cagliari, pallida e accesa

16 Giugno 2012

Alfonso Stiglitz

“Distesa, ammonticchiata, sparpagliata, rappresa, densa e rada, Cagliari, pallida e accesa”, è la città di Francesco Alziator, con i suoi diversi e contrastanti disegni urbani.
L’immagine mi è tornata in mente leggendo, sull’Unione Sarda l’articolo di Paolo Fadda “Cagliari, la città meticcia”, nel quale l’autore oppone una Cagliari del passato fatta di cittadini a una del presente composta di residenti: “mentre i primi, purtroppo numericamente inferiori, vivranno e ameranno la città come casa e cosa propria, i secondi si limiteranno ad ‘usarla’. Sarà forse questo squilibrio quantitativo a determinarne l’annacquamento dell’identità”.
Una visione che non convince del tutto, quella di Paolo Fadda, perché affianca il meticciato culturale, proprio di una città di mare, originato, come dice, da “una mescolanza di sangunau” all’ibridismo urbanistico, quest’ultimo frutto del primo. In realtà la “mescolanza di sangunau” è costante nella storia di Cagliari sin dalle sue lontanissime origini nel primo millennio a.C. e non le ha mai impedito di essere una città di cittadini.
L’ibridismo urbanistico lontano dall’essere il risultato obbligato di una evoluzione biologica derivante dalle successive ondate migratorie (di cui tutti, nello scorrere del tempo, siamo stati parte), è, invece, frutto di scelte politiche, meditate, volontarie e perfettamente consapevoli, ma indifferenti ai risultati. Solo così si può spiegare un quartiere ghetto come Sant’Elia, accessibile da pochissimi varchi, o quello di via Castelli, con strada senza uscita; entrambi frutto di programmazione urbanistica consapevole e non di accumulo di immigrati, orde di invasori. Quella che è venuta a mancare è un’”anima condivisa”, nel senso di una programmazione partecipata della città, finora abbandonata alla triade politici-progettisti-costruttori. La scelta delle torri di Santa Gilla ne è un esempio manifesto, un paesaggio ultramillenario descritto da poeti e visitatori troncato di netto e che si vuole far digerire mascherandolo come spazio di spettacoli, nel vecchio e sempre efficace rapporto tra il panem e i circenses, da dispensare al volgo.
Per questo è importante che le idee per una città diversa, diffuse nello spazio civile e in quello politico, si diffondano e diventino sempre più oggetto di dibattito pubblico, a patto che questo svicoli dal confronto per categorie, per ambiti, per portatori di interesse, per aprirsi a qualcosa di più ampio e, possiamo dire, di meticcio. In questo senso trovo, da cittadino e da residente, preoccupante che molte delle idee e delle decisioni rischino di tradursi in un braccio di ferro tra alcune categorie e l’amministrazione comunale; vedi ad esempio il problema delle ztl e la ferocissima polemica politico-affaristica sull’anfiteatro, ovvero dell’uso degli spazi visto esclusivamente in termini economici, per la capacità della categorie di turno di imporsi sulle altre voci prive di organizzazione in quanto composte, appunto, di cittadini.
Oggi, più che mai, pur con la ristrettezza delle risorse o forse anche grazie a essa, ci troviamo davanti ad alcune novità che possono stimolarci per disegnare, nell’agorà cittadina, una diversa immagine della città. Penso ad esempio alla benemerita decisione di rinunciare al tunnel sotterraneo (e subacqueo) di via Roma, alle – spero definitive – decisioni di rinunciare al parcheggio multipiano di Marina piccola, alle dismissioni militari e carcerarie, allo smontaggio dell’ignobile legnaia dell’anfiteatro, agli spiragli che si vedono per la soluzione dei guasti, frutto di precise scelte politiche e non di distrazioni, che mortificano Tuvixeddu-Tuvumannu, e così via. La possibilità, cioè, di ridiscutere il disegno urbanistico della città, per renderla effettivamente meticcia, cioè capace di ridare senso e identità ai luoghi proprio per il suo essere portatrice di una pluralità di stimoli, abbattendo le giustapposizioni tra parti e parti, tra periferie chiuse.
Gli esempi che ho scelto, tra i tanti, possono essere il luogo del nuovo “manuale di progettazione” della città. A partire dalla viabilità, dal traffico e dal suo crescere parallelo ai nuovi parcheggi, un rapporto insano che continua a espropriare spazi collettivi a favore di mezzi meccanici, che passano la maggior parte del tempo a dormire nei piazzali o nei multipiani: una via Roma che ridiventi il luogo del rapporto tra la città e il suo porto, aprendo sempre più quest’ultimo verso di essa, una Marina piccola che si apra allo spazio verde della Sella del Diavolo, senza nasconderla con il multipiano, di scarsa utilità urbanistica e grave danno paesaggistico. Non dimentichiamo, poi, che il curvone ai piedi della Sella era sede di uno dei più antichi insediamenti abitativi di Cagliari, un autentico centro di “cittadini”.
La dismissione degli ampi spazi militari e carcerari è la cartina tornasole che ci permetterà di capire se siamo in grado di gestire la città o meno. Qualche segnale negativo anche se piccolo e inosservato ci può portare ad alzare le antenne: il recente trasferimento della Prefettura a Buoncammino in area militare dismessa, positivo per la riduzione delle spese di affitto, ha significato la requisizione di un’ampia porzione di parcheggi che sono stati riservati ai dipendenti della stessa; il che, unito agli altrettanti parcheggi riservati alla Polizia (non alle auto di servizio ma a quelle private), è il segno di una volontà poco rassicurante sul ruolo che lo Stato vuole garantirsi nel disegnare la città, dismettendo da una parte e continuando a decidere dall’altra. A parte che continuo a chiedermi a cosa servano, oggi, le Prefetture, chiaro retaggio centralistico ottocentesco.
Non facciamoci espropriare della capacità di decidere, usiamo le idee per ridisegnare la città, come? Le parole di Alziator ci forniscono il punto di vista, “il cono di visuale” come dicono i paesaggisti,  dal quale rivolgere lo sguardo: “Cagliari, pallida e accesa, polarizza tutta l’attenzione e questa magicamente cresce col crescere della città nello sfondo, a mano a mano che la nave si avvicina in porto”.

N.B.
La frase di Alziator è tratta da volume L’elefante sulla torre, pubblicato la prima volta nel 1978.

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