Delitto di paese

1 Giugno 2008

Manuela Scroccu

Non solo nella capitale sbocciano i fiori del male. Così cantava Fabrizio De Andrè, traducendo una canzone di Brassens. Niscemi è uno dei tanti paesi della provincia italiana, uno dei tanti regni del blocchetto di cemento, regni del “non finito” dove le case non hanno l’intonaco e dal piano superiore spuntano lunghi cavi di ferro. E’ in Sicilia, ma questa volta non fa molta differenza. C’è una strada lunga che taglia in due il paese, ci sono i bar dove si ammazza la noia con la birra e il videopocker, ci sono i ragazzini che sfrecciano in motorino oppure sostano nelle piazzette, uguali a tutti i ragazzini di periferia d’Italia, con il viso incollato ai display dei telefonini e la testa persa dietro i miti della televisione. Miti di poco conto, tronisti, vallette, partecipanti al Grande Fratello, perché sembra che anche i sogni si siano atrofizzati, in questa grigia e ininterrotta provincia che è ormai diventata il nostro paese. Anche Lorena sembra una ragazza come le altre, graziosa come tutte le adolescenti di adesso, confusa, come tutte le adolescenti di tutti i tempi. La differenza è che il suo corpo senza vita è stato ritrovato dentro un pozzo, nudo e bruciato.
Questa è una brutta storia che inizia come la fiaba di Cappuccetto Rosso, con una ragazzina che dice alla mamma “sto andando a trovare la nonna”, e finisce come un film dell’orrore giapponese.
Non c’è nessun mistero, nessun giallo di Niscemi. I colpevoli hanno confessato, e dopo hanno chiesto al Giudice se potevano tornare a casa. Sono stati tre ragazzini minorenni, quindici, sedici e diciassette anni, amici della vittima. Hanno fatto le stesse scuole elementari, le stesse scuole medie, sono andati alle stesse feste di compleanno, come succede spesso nei paesi. Anche le modalità del delitto sono chiare. L’“orrore del pozzo”, il “delitto efferato”, la brutalità che nei titoli di giornali è, chissà perché, sempre “inspiegabile”, sono stati abbondantemente sviscerati, in tutti i particolari più “agghiaccianti”, anche questo è un aggettivo molto usato, dai cronisti e dagli opinionisti nostrani.
Sappiamo come: i tre hanno dato appuntamento alla loro amica e, in motorino, l’hanno portata in aperta campagna fino ad arrivare ad una casolare abbandonato. Qui, dopo averla violentata, l’hanno strangolata con un cavo tv, hanno bruciato il cadavere e poi l’hanno gettato in fondo al pozzo, nella speranza che non fosse mai trovato.
Sappiamo perché: i tre ragazzi hanno premeditato l’omicidio per evitare che Lorena dicesse in giro che uno di loro l’aveva messa incinta.
Avevano pensato anche alla possibilità di essere scoperti. Avevano capito che i carabinieri sospettavano di loro e si sono inventati, sapendo che ormai tutti sono intercettati, uno scambio di telefonate in cui fingere grande stupore: “hai saputo che è successo a Lorena?”, “Ma davvero, non ci credo, l’hanno uccisa?” Chissà, forse l’idea l’avranno presa dalla tv, magari anche loro guardavano CSI scena del crimine.
Dacia Maraini, su Repubblica, ha parlato di sopravvivenza di una Sicilia arcaica in cui è ancora normale la “fuitina”, a cui molti avevano pensato come una cosa normale già dalle prime ore della scomparsa di Lorena. La scrittrice siciliana ha ricordato il libro di Lara Cardella “Volevo i pantaloni”, che tanto scandalo fece un decennio fa, come simbolo di una società siciliana in cui la donna è ancora imprigionata nel suo ruolo di “santa”, in quanto fidanzata e madre, ruolo al di fuori del quale ritorna alla condizione naturale di mero oggetto sessuale. Una società in cui la vittima, anche dal fondo buio di quel pozzo in cui è stata gettata, è chiamata a giudizio per la sua condotta morale. Perché “era consenziente”, così hanno detto i suoi carnefici. Perché in fondo se l’è cercata, ha sussurrato il paese. C’è sicuramente questo nel delitto di Niscemi, ma non solo.
Certi delitti di cronaca nera, a volte, sono come dei “bug” informatici, come certi virus del computer che segnalano che il sistema è stato contaminato e che potrebbe implodere. Una ragazzina di 14 anni uccisa da tre coetanei costringe a guardare attraverso il velo dell’ipocrisia. Una volta placato l’assordante chiacchiericcio mediatico che solletica la morbosità italica per il dettaglio raccapricciante, rimane solo lo sgomento nel guardare negli occhi questi adolescenti, chiedendosi se, al di fuori della responsabilità penale soggettiva, non ci sia una responsabilità collettiva per il disgregarsi dei rapporti di convivenza all’interno della comunità, per il vuoto e la superficialità elevati a sistema di valori. Chi, o cosa abbiamo generato? Lo psichiatra Ammaniti, sempre sulle pagine di Repubblica, si chiedeva preoccupato se gli italiani non debbano temere maggiormente i propri figli adolescenti invece di strillare contro gli immigrati clandestini.
La ragazza in fondo al pozzo non ci ha messo molto a sparire dai palinsesti e dalle prime pagine. Forse ricomparirà in cronaca, tra qualche tempo, magari con qualche dettaglio sulle indagini che ancora non hanno chiarito se Lorena fosse incinta o meno.
La paura è una brutta bestia, chi gestisce il potere dei media lo sa, va nutrita con carne fresca. Ci sono i rom, adesso. Ci sono gli immigrati che ci assediano e che minacciano la nostra sicurezza. E d’altronde, il delitto di Niscemi non è una nuova Cogne, non né ha le caratteristiche. Ci si può fare al massimo una puntata di “Porta a Porta” con qualche pseudo psicologo di grido sul disagio giovanile. Troppo poco, non ci può ricavare neanche un plastico, non c’è nessun avvocato Taormina da intervistare, nessun fango da rimestare. E’ tutto straordinariamente, incredibilmente, ferocemente chiaro. La banalità del male.

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