Disagio psicologico e strumenti di sostegno a Sassari

16 Ottobre 2019

Robert Doisneau

[Daniela Piras]

I dati riguardanti la percentuale dei suicidi che avvengono in Sardegna, causati dalla depressione, sono allarmanti: quelli diffusi nel 2017 dal professor Bernardo Carpiniello, specialista in Psichiatria e Psicoterapia, indicano che il 13% dei sardi è vittima della depressione, a fronte della media italiana che si attesta sul 9-10%. Il disagio esistenziale e la solitudine sono alla base della decisione di dire “basta”.

Nonostante varie campagne informative cerchino di demolire i tabù che si accompagnano alle terapie legate alla psicoterapia e (ancor più) alla psichiatria, esistono (e resistono) ancora diverse remore ad approcciarsi a questi specialisti, principalmente a causa del fatto che si tende ad associare alla psicoterapia un fallimento esistenziale.

Provando ad analizzare nello specifico la realtà della città di Sassari, le possibilità di sostegno offerte alla cittadinanza sono diverse: oltre alle associazioni di supporto psicologico come “Voce amica” e ai consultori di via Rizzeddu e di via Nurra, ci si può rivolgere, su consiglio del medico di base che recepisce un bisogno di un supporto professionale, al centro di salute mentale, il CSM, struttura sanitaria che mette a disposizione figure addette e specifiche come psichiatri e psicologi.

Vorrei riportare la testimonianza di una donna che ha provato a cercare aiuto nel CSM: Maria (nome di fantasia), ha una situazione di equilibrio piuttosto stabile, ma si rende conto che alcune sue reazioni oltrepassano la soglia che si associa al concetto di “normalità”; esperienze negative legate a un recente passato le hanno lasciato in eredità un accumulo di nervosismo.

Definire il confine tra normale e anormale per Maria è un fatto molto complicato, ha paura ad ammettere, soprattutto a se stessa, che qualcosa non va come dovrebbe nella sua mente, e che alcuni cattivi pensieri non sono da sottovalutare. Chi la circonda, seppur dandole supporto e amore, non riesce ad arginare il suo stato di malessere, per cui, con grande fatica, decide di parlare con il suo medico di base. Le viene consigliato di rivolgersi alla struttura sanitaria convenzionata, e di prendere un appuntamento recandosi direttamente ai loro sportelli. Esce dallo studio con un’impegnativa in mano, tanta malinconia e un po’ di confusione, consapevole del fatto che non si tratta di prenotare una visita per far controllare il dente del giudizio, né per far analizzare un neo sospetto. La mente umana è complessa e ragiona in base a dei pregiudizi che spesso appaiono insormontabili; anche soltanto il fatto di doversi recare fisicamente al palazzo di via Amendola, (una delle vie più trafficate della città), è difficile.

Maria arriva con visibile titubanza allo sportello dal quale si affacciano, a rotazione, tre persone, ognuna di loro le chiede qualcosa non avendo l’accortezza di moderare il tono della voce: “È la prima volta che viene qui?”; “Con chi deve prenotare?”; “È già nostra paziente?”. Maria si guarda alle spalle, a pochi metri si estende una grande sala d’attesa: uomini, donne, persone che parlano e che discutono davanti alla macchinetta del caffè. Spera di non incontrare nessuno che la conosca; risponde a monosillabi e dopo pochi minuti esce con una data per il suo primo colloquio: l’appuntamento le è stato fissato dopo tre mesi.

Pensa che nell’attesa tutto potrebbe cambiare, sia in positivo che in negativo; in un certo qual modo è tranquillizzata dal fatto di avere tutto quel tempo per riflettere su quella decisione, infatti per disdire è sufficiente fare una telefonata. Si chiede se ha realmente il bisogno di parlare “a qualcuno” dei suoi problemi o se invece non basti sfruttare la fortuna di vivere in Sardegna, dove l’estate offre mille occasioni per distendere i nervi. La “cura” sole/mare/passeggiate/amici pare sortire un buon effetto generale sul suo umore ma, a pochi giorni dalla data fissata, Maria avverte una leggera ansia: si chiede cosa abbia da raccontare a uno psicologo, ha paura di aver fatto una scelta sbagliata, valuta di annullare l’appuntamento ma considera che ha dovuto aspettare quasi novanta giorni per ottenerlo. Alla fine decide di presentarsi al colloquio, contando i giorni restanti con inquietudine. Quella mattina esce di casa senza dire a nessuno dove sta andando. Arrivata davanti al palazzo osserva con angoscia il viavai delle persone e, prendendo un forte respiro, affronta la scalinata che la porta al CSM: allo sportello ritrova la stessa confusione che aveva lasciato all’inizio dell’estate, i tre si alternano domandandole quasi contemporaneamente chi è il medico con cui ha l’appuntamento, in che orario le è stato fissato e se è già stata inserita nei registri.

Un ragazzo che appare stralunato cerca in maniera ossequiosa il suo nome nell’elenco di un voluminoso faldone, fin quando non viene ripreso da una donna più anziana con il camice bianco che gli urla di star cercando il nome in un registro dove è impossibile ci sia, ribadendo a lui, a Maria, e di conseguenza a tutte le persone che sono nei dintorni, che “È la prima volta che la signora è qui!”. La donna si guarda attorno e sente aprirsi una voragine sotto ai piedi, pensa per un attimo di andare via ma poi resta e si accomoda nella sala, dove aspetta la chiamata della dottoressa “X”.

L’appuntamento è fissato per le 11:30. Si siede e prova ad arginare l’agitazione scorrendo l’indice sul display del cellulare. La gente entra ed esce in maniera frenetica; la sala è aperta al pubblico, non c’è nessun separè e chiunque può vedere chi vi si trova seduto, tra cui operai e impiegati che si danno il cambio davanti ai distributori automatici di bibite e bevande calde. Passa il tempo e ormai il ritardo è consistente: trentacinque minuti. Un’abbondante mezz’ora che Maria trascorre a pensare e ripensare, consumando le sue unghie oltre al display ed entrando un paio di volte in bagno senza averne nessuna necessità. Decide di andare via. Non ha ancora pagato il ticket perché gli addetti non le avevano spiegato, al momento della prenotazione, che avrebbe dovuto farlo al Palazzo Rosa di via Monte Grappa (il punto abilitato più vicino), e che lì non esistono sportelli appositi.

Il fatto di non aver ancora pagato le appare come un’opportunità, una via d’uscita a una situazione pacchiana e confusa, che di professionale e di medico pare non aver niente.

Sta per alzarsi e dirigersi verso l’uscita quando viene avvicinata da una signora sulla sessantina che le chiede se ha appuntamento con la “dottoressa X”; risponde di non essere a conoscenza del nome del medico che deve incontrare e che l’orario dell’appuntamento era fissato per le undici e trenta, mentre in quel momento sono le dodici e dieci.

La signora la invita ad accomodarsi in una piccola stanza interna, e la lascia in compagnia di una donna che non le viene presentata, e che non si preoccupa di farlo. Le viene chiesta la ricevuta di pagamento: spiega che pensava di poter pagare in sede ma che così non è stato. Quando ritorna la dottoressa Maria è ancora in piedi, in evidente imbarazzo per il disguido. La “signora” si preoccupa di sintetizzare l’accaduto e aggiunge che gli operatori hanno consigliato alla paziente, non sapendo quanto durasse l’attesa, di pagare direttamente alla conclusione della visita. La dottoressa ride in maniera irriverente e canzonatoria, contestando in maniera polemica l’operato degli impiegati, placandosi solo dopo aver capito che ad avere dato le informazioni errate è “il ragazzo giovane”. La psicologa scambia uno sguardo con la signora a fianco e ride, di nuovo, affermando che in tal caso non si può dire niente, mettendo in luce la poca considerazione professionale che ha per il giovane impiegato.

Maria non sa dove guardare, assiste alla scena maledicendosi per non essere scappata prima, per essere lì, in un luogo dove sente di non dover stare, dove nessuna delle due presenti si qualifica, dove nessuno le chiede chi sia. Si sente un numero di prenotazione, un nome e cognome stampato su un’impegnativa. Dopo pochi istanti la dottoressa si siede e le domanda chi è il medico che le ha prescritto la visita. Maria inizia a parlare, precisando che nessuno le ha prescritto niente “d’ufficio” ma che è stata lei ad avere avuto l’iniziativa e ad aver parlato con il suo medico di base, facendogli presente di aver accumulato un carico pesante di nervosismo.

La dottoressa la guarda senza parlare, scambiandosi di continuo sguardi con la “signora” seduta accanto. In pochi minuti Maria si rende conto di essere osservata con aria di pena e commiserazione, esattamente come una che ha fallito, e che si trova lì soltanto per ammettere tale fallimento. È come se fosse in guerra, e si trovasse dalla parte dei perdenti. Nota che le due la guardano in maniera sospetta, e ha paura che le possano infilare una camicia di forza e un ago sull’avambraccio da un momento all’altro.

Ha paura, nonostante la dottoressa le domandi cose semplici, come si fa con i bambini, perché il tono è palesemente quello che si riserva ai malati, ai malati di mente, a coloro che non sono in grado di ragionare. Si sente sempre più nervosa, pochi minuti le bastano per farle capire chi ha davanti: una persona che incarna in maniera lampante il pregiudizio contro il quale ha provato a combattere per tre mesi. La psicologa continua a osservarla chiaramente con gli occhi di chi è cosciente di avere a che fare con una persona instabile, non in grado d’intendere e di volere, e a ogni domanda si scambia uno sguardo d’intesa con la “signora” seduta di fianco, come a volerne ottenere l’approvazione.

La situazione è davvero paradossale, l’aspirante paziente comincia a tremare e a innervosirsi, vistosamente. La dottoressa forse percepisce questo suo stato e, per farla “rilassare” (presumibilmente) le rivolge una battuta fuori luogo, ridicolizzando un fatto che le ha appena raccontato.

Maria si sente presa in giro, ha faticato per trovare il coraggio di dire quelle poche parole, è mortificata, aveva pensato che fare un esempio pratico potesse aiutarla a spiegare meglio il suo stato d’animo. Non ha assolutamente voglia di mostrare alle due la sua capacità di ridere e di scherzare. La sensazione di disagio che la attanaglia è fortissima, l’incontro degenera: la dottoressa reagisce male alla sua contestazione, quando trova il coraggio di dire che non si aspettava di andare lì a testare il suo senso dell’umorismo, e che per lei non è facile raccontarsi a delle totali estranee. La psicologa ribatte, la accusa di essere effettivamente molto nervosa e per tale ragione di non essere nelle condizioni di accettare una battuta.

Maria si alza, non distogliendo neanche per un momento gli occhi dalla porta. La situazione è ormai irrecuperabile, dice di voler andare via, la tensione traspare chiaramente dal tono della voce e dai gesti. La dottoressa si rende conto di non aver più carte da giocare, e prova ad abbozzare delle scuse: si scusa per l’attesa, precisando che è avvenuta a causa di “una signora che aveva appuntamento alle undici ma che non se andava più!”, si scusa per non avere chiesto se potesse dar fastidio la presenza della “signora” (mai qualificandola come assistente o altro); infine le chiede di stare tranquilla, dicendole che probabilmente è proprio a causa del suo pesante nervosismo che non si è riusciti ad effettuare la visita.

Maria saluta, chiede scusa imbarazzata per la perdita di tempo causata, dice di essere comunque disponibile a pagare il ticket. Augura buona giornata e va via.

Ecco: Maria è una donna che sta bene, non ha problemi seri e non è sola nella sua vita. È andata lì, al CSM, solo perché sentiva di essere eccessivamente irrequieta. Esce dalla struttura che, oltre ad essere nervosissima, si sente cretina, si sente sbagliata, si sente inadeguata.

Le persone davanti a lei erano medici (almeno una), erano al lavoro, erano lì per aiutarla, e il fatto di non essere stata in grado di sostenere il colloquio in maniera lucida la riempie di dubbi sul suo stato psicologico.

Questo è un episodio avvenuto a Sassari, che ho trovato emblematico. È inutile diffondere slogan e campagne informative allo scopo di abbattere i tabù legati alla psicoterapia quando (fosse anche in una piccola percentuale) esistono al contempo specialisti assunti in una struttura pubblica che pensano di trovarsi a che fare essenzialmente con “disturbati patologici” a cui non devono niente, nemmeno il rispetto, con buona pace del codice di deontologia medica.

1 Commento a “Disagio psicologico e strumenti di sostegno a Sassari”

  1. Laura monachella scrive:

    Finalmente qualcuno che scrive lo scempio che succede nei CIM/CSM.
    Accadono cose ancora più inquietanti di cui sono testimone diretta.
    Un rimbalzo di responsabilità, dirigenti inetti e votati al nulla amministrano questi luoghi di dolori.
    Accadrà presto che questi episodi di evidente malasanità vengono posti all’attenzione della magistratura.
    Capiterà come sono a conoscenza che alcuni operatori psicologi? Psichiatri? Assistenti? Non è dato sapere per la privacy o perché alcuni pazienti non sono in grado di discernere la differenza sostanziale, vengono invece ritenuto operatori professionali e attenti. Non stupisce più di qualche mela marcia rovina la reputazione di molti servizi pubblici.
    Grazie per questo articolo mi sono, ci siamo sentite meno sole.

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