Esiste un “fiuto” culturale? A proposito di una “profezia” di Dante

2 Gennaio 2020
[Marinella Lőrinczi]

Tempo fa Academia.edu, che “è un sito web dedicato alla condivisione di scritti, prevalentemente di natura scientifica”1, mi segnala un volume di 129 pagine, pubblicato dalla EDES di Sassari nel 2017, il cui titolo è Ideas. Dante, Gramsci e il sardo comune. Ne è autore Stafano Selenu, docente di italiano all’Università di Syracuse, nello stato di New York2. Questa mia non vuole essere una recensione all’intero volume, ma solo la discussione di alcuni problemi, tra cui quello enunciato nel titolo, il secondo: la ‘profezia’ di Dante.

Il libro – dichiara l’autore da subito – riprende un elaborato precedente, iniziato intorno al 2002 e riveduto, sebbene esso non contenga cambiamenti sostanziali rispetto alla prima versione; questa è stata ritenuta idonea, in linea di massima, anche per i tempi della pubblicazione (2017). Ma risulterebbe oramai obsoleta, per l’autore, la discussione di un problema importante ma risolto e superato. Infatti, spiega (a p.13), “fino al ’97 la questione era ancora se il sardo fosse una lingua o un dialetto, ossia la questione di cosa fosse il sardo”, e tali interrogativi avrebbero ricevuto una risposta definitiva intorno agli inizi del terzo millennio, “per decisione scientifica, politica e legislativa.” L’anno 1997 è quello della promulgazione della legge regionale n. 26, intitolata Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna3.

Questo tardivo, anzi recente, riconoscimento del sardo come lingua a se stante mi giunge del tutto nuovo. Quando studiavo all’Università di Bucarest (devo dire di quale Stato si tratta?), molto prima del 1997, tutti, docenti e studenti di linguistica romanza, come dappertutto in Europa, eravamo beatamente e ingenuamente certi che il sardo fosse una lingua a sé stante, cioè diversa, per ben identificabili caratteristiche proprie, da ciò che normalmente s’intende per italiano francese spagnolo ed altri. Forse invece non sapevamo, noi studenti giovani della Romania (mai andati in Occidente), dove fosse esattamente la Sardegna. Forse … Del resto ho appreso, successivamente, che non eravamo gli unici ignoranti in Europa. Ma comunque molto meno ignoranti – allora! – di chi – attualmente, negli anni 2017-’19! – situa la Romania presso il Mar Caspio o il Mar Morto (tra l’altro, entrambi sono laghi).

Certo, la storia di come il sardo fosse indicato e classificato a iniziare da Dante, è una materia intricata. In un mio articolo recente metto insieme e ricucio le principali testimonianze storiche scritte tra il ’500 – ’9004. Per citarne una, molto autorevole, il famoso romanista di origini svizzere Wilhelm Meyer-Lübke (1861-1936) «fa del sardo una lingua romanza a sé»; a rammentarlo nel 1905 è il milanese Pier Enea Guarnerio (https://it.wikipedia.org/wiki/Pier_Enea_Guarnerio), noto studioso di argomenti linguistici attinenti alla Sardegna. Non comprendo, quindi, perché questa netta e influente posizione del Meyer-Lübke venga rammentata da Selenu solo molte pagine più avanti (39-40), quando illustra gli studi di glottologia compiuti da Gramsci a Torino (nel 1912-’13), anziché utilizzarla da subito e accanto a tante altre; così risolveva da subito, sul terreno della linguistica e non di un senso comune indefinito e fallace, e soprattutto senza confondere questi due piani, la falsa dicotomia del sardo o lingua o dialetto, la cui ragione va ricercata e presentata in un altro modo. Persino durante il dialettofobo periodo fascista, Gino Bottiglioni (Carrara 1887-1963), un altro noto linguista ‘continentale’ (http://www.treccani.it/enciclopedia/gino-bottiglioni_(Dizionario-Biografico)/), nel 1936 indica «La lingua sarda, con le sue varietà dialettali …»5. Questa convinzione scientifica viene propagata da influenti autori di manuali, da un capo all’altro dell’Europa: Iorgu Iordan (1888-1986) e Maria Manoliu Manea (n.1934) in Romania, Carlo Tagliavini (1903-1982) in Italia, W.D. Elcock (1910-1960) in Gran Bretagna, e concludo questo brevissimo elenco con il bavarese Max Leopold Wagner (1880-1962), artefice indiscusso della linguistica sarda moderna, e con la sua famosa sintesi del 1951, La lingua sarda: storia, spirito e forma.

Ma, in Sardegna, le iniziative politiche e legislative (a partire dal 1997) erano e sono il risultato di ragionamenti ed azioni che si svolgevano e si svolgono sul terreno delle ideologie, delle leggi e della prassi politica: tutela, salvaguardia, emancipazione, ufficializzazione, standardizzazione, uso scolastico ed amministrativo, revitalizzazione ecc.; tali operazioni, nel caso del sardo, non inno(va)vano sul piano classificatorio, dal momento che risale a secoli prima il riconoscimento del sardo quale lingua a se stante. Quasi il 41% delle lingue mondiali è in una situazione di declino, fino ai limiti della scomparsa; si tratta di idiomi classificati dagli studiosi come lingue, ma che si trovano in una posizione subalterna, di prestigio sociale inferiore e di minore diffusione rispetto ad una lingua più potente e spesso, ma non sempre, persino ufficializzata. Essi sono quindi socioletti all’interno della comunità nel suo complesso, cioè idiomi socialmente connotati. E sono le eventuali politiche linguistiche o le tendenze emancipatrici che possono, sempre eventualmente, porci rimedio. I laboriosi tentativi odierni di standardizzazione del sardo vanno compresi entro questo quadro di fatti e di azioni.

Un altro problema messo in evidenza nel saggio di Selenu (p.37): Dante e le sue ambigue valutazioni espresse sul conto e ai danni della lingua sarda, nel suo trattato De Vulgari Eloquentia (d’ora in poi VE), composto in latino nel primi anni del Trecento.

«Sardos etiam, qui non Latii sunt sed Latiis associandi videntur, eiciamus, quoniam soli sine proprio vulgari esse videntur, gramaticam tanquam simie homines imitantes: nam domus nova et dominus meus locuntur.» (VE, I,XI,7) “Quanto ai Sardi, che non sono Italiani ma andranno associati agli Italiani, via anche loro, dato che sono i soli a risultare privi di un volgare proprio [=idioma storico, parlato da tutti e appreso in famiglia], imitando invece la grammatica [=il latino, artificiale e inventato, secondo Dante, e utilizzato dalle persone colte] come fanno le scimmie con gli uomini: e infatti dicono domus nova e dominus meus.”6.

I Sardi potrebbero a ragione recepire questa formulazione come ambigua dannosa e offensiva (e così è successo nell’Ottocento, si legga lo sfogo dell’Angius più avanti), ma nel trattato dantesco, che ha numerose edizioni e commenti moderni, c’è di ‘peggio’. Cosicché, a differenza da Selenu, tiriamoci su il morale riportando alla luce che anche “quello dei Romani – che non è neanche una lingua ma piuttosto uno squallido gergo – è il più brutto di tutti i volgari italiani: il che non meraviglia, dato che anche quanto a bruttura di abitudini e fogge esteriori appaiono i più fetidi di tutti.” (VE, I,XI,2); oppure che “se i Genovesi a causa di un’amnesia perdessero la lettera z, dovrebbero o ammutolire completamente o rifarsi una nuova lingua. La z infatti fa la parte del leone nella loro parlata, e si tratta di una lettera che non si può pronunciare senza molta durezza.” (VE, I,XIII,6). Per non parlare dei Friulani (VE, I,XI,7), poiché gli “[Aquilegienses et Ystriani] crudeliter accentuando eructuant”: la traduzione è superflua; purtroppo i filologi traduttori ne smussano il significato.

E’ abbastanza evidente, secondo me, che si tratta di giudizi più che altro satirici, parodistici, iperbolici, eccessivi, caricaturali, di cui non sarà nemmeno certo che fossero ideati dal solo Dante; magari i nuclei delle descrizioni sbeffeggianti circolavano già nella società come prese in giro, a mo’ di blasoni più o meno popolari.

E vi sono anche forti contraddizioni nel trattato dantesco: l’italiano sarebbe superiore al francese e all’occitanico (al provenzale) poiché i suoi migliori utilizzatori, i poeti, “mostrano di appoggiarsi maggiormente alla grammatica” (VE, I,X,2), vale a dire al latino; il latino, a sua volta, sarebbe invece per Dante una lingua artificiale inventata dall’uomo e quindi lingua materna di nessuno e in nessun’epoca e da nessuna parte. Poiché gli inventori del latino avrebbero preso il sic “così, sì ecc.” dal italiano, l’italiano (il volgare del ) sarebbe superiore, anche per questa seconda ragione, al francese e all’occitanico. Riassumendo: Dante suggerirebbe la latinità dell’italiano, quanto meno di un certo registro alto dell’italiano; per ribaltamento, la latinità dell’italiano comporterebbe l’italianità del latino7.

Questo tipo di vicinanza al latino conferirebbe, quindi, un’indiscussa superiorità all’italiano. Ma non anche un certo valore, o un valore certo, al sardo dei Sardi, anzi al contrario, – e questa è la seconda grande contraddizione – i quali invece, sempre in virtù della supposta latinità del loro idioma, sarebbero solo dei maldestri imitatori, privi di un proprio volgare naturale. Inoltre, i Sardi “non sono Italiani ma andranno associati agli Italiani“ (VE, I,XI,7) e questi ultimi, gli Italiani, erano rappresentati nella Sardegna basso medioevale dai rivali genovesi e pisani, interessati alla Sardegna per ampliare e rafforzare la propria influenza nel Mediterraneo (e certamente non per questioni linguistiche, tanto meno per la formazione di uno stato nazionale unitario, che per parecchi secoli ancora non si progetterà). Questo fino all’arrivo dei Catalano-aragonesi e poi degli Spagnoli, che attraggono la Sardegna nella propria sfera d’influenza, politica e linguistica.

Non è la prima volta che mi accosto al brano dantesco, e nel lontano 2000 mi ero limitata, appunto, all’esame della caricatura che ridicolizzerebbe la lingua sarda8. Avevo ipotizzato per una serie di ragioni che la lingua sarda (o il volgare sardo) cui Dante accenna sprezzantemente fosse piuttosto un idioma scritto che non uno parlato, o che si trattasse, anche, di una sua impressione formatasi piuttosto visivamente, su testi scritti (com’era abituato, appunto, anche per il latino), che non uditivamente in base al parlato vivo. Nell’Ottocento alcuni studiosi pensavano che limitatamente ai due sostantivi domus-dominus, la discrepanza tra il ‘sardo’ domus – dominus (in realtà domo/domu “casa, tenuta”– donnu) e l’italiano (toscano) casa – signore avrebbe colpito sfavorevolmente Dante, in quanto conferiva al sardo maggiori sembianze di latinità, cioè di solidità strutturale, soprattutto se paragonata alla ‘latinità’ dell’italiano. Insomma, una sorta di malcelata invidia. La più grossa contraddizione consiste, tuttavia, nel fatto che se il latino è per Dante una lingua artificiale, inventata, costruita dai dotti, il sardo, scimmiottatura del latino, sarebbe doppiamente artificiale o innaturale. I Sardi, quindi, sarebbero stati una specie di robot ante litteram?

Costruendo questa sua teoria stravagante, Dante, nell’opinione di Selenu, andrebbe molto oltre la semplice questione storico-linguistica (p.37): “[Dante] non prevede semplicemente una crisi spirituale sarda [partendo dall’assenza di una vera lingua, di un vero volgare naturale; aggiunta mia] come disse Piero Gobetti nel saggio Il problema sardo [nota 39, v. più avanti], crisi che sicuramente poi vi fu [con la graduale decadenza delle autonomie giudicali; aggiunta mia] … Dante non pone il problema di una cultura [sarda] che non riesce strutturalmente più a tenersi, ma pone un vuoto, all’interno della struttura-Italia. Questa la differenza tra i sardi-non-italiani non parlanti alcun volgare e il resto degli italiani possessori di diversi volgari più o meno belli e più o meno prestigiosi. Quello di Dante [che nel VE discute ad ampio raggio e non solo di sardo; aggiunta mia] è un atto di politica nazionale-culturale come sostenne Gramsci” nel Quaderno 29 del 1935. Gramsci però ci ricorda che nazionale, ai tempi di Dante, aveva un senso diverso da quello odierno prevalente. Per completare quest’annotazione gramsciana, occorre sapere che natio nel Medioevo si riferiva al luogo d’origine, al luogo natio, al gruppo etnico-linguistico di provenienza, e non aveva alcun significato politico-statale. Le università basso medievali erano composte, ad esempio, di studenti di tante nazioni9; e ancora nel 1867, cercando a caso, questo significato sopravvive: “l’Asia, la quale fu la grande sorgente delle nazioni”10. Sappiamo, inoltre, che nel Cinquecento il VE era prevalentemente “pezza d’appoggio e idolo polemico diretto nelle discussioni sulla questione della lingua” italiana11, questione dalla quale il sardo era escluso per una serie di ragioni politico-linguistiche abbastanza evidenti per chi conosca la storia dell’isola. A metà dell’Ottocento Vittorio Angius, sardo e importante studioso ottocentesco di cose sarde, dinanzi a una citazione pubblica e a suo avviso sconsiderata dell’intero passo dantesco che si riferisce al sardo, si lascia andare a una furibonda e concitata contestazione12: il dialetto dei Sardi “si approssima alla lingua latina più di qualunque altro dialetto italico, checché paja a coloro che non lo conoscono, ma osano giudicare. [in nota:] Tra questi vada il Dante [segue il passo incriminato]. Il Tola [Pasquale Tola, il primo forse a citare l’intero brano dantesco nel 1850] disse memorabili queste parole nella sua prefazione all’edizione [del 1850] degli Statuti [medievali] di Sassari. Nol [= non lo] sono certamente per senno [= intelligenza]; anzi per onore di chi le ha scritte [=Dante], che scrisse altissimi sensi, meriterebbero obliterate. Il preclaro scrittore [= Tola] s’ingegna a interpretare l’intenzione [di Dante] in un modo rispettoso, quasi temesse l’animadversione del mondo, se fosse stato più schietto [nel parlare]; ma est modus in rebus! Nessuno di più di me ammira quell’immenso ingegno [= Dante]; ma qui mi fa ridere. Egli sonnecchia e peggio.”

E’ già abbastanza inusuale, se non assurdo, che da quattro parole ‘sarde’ citate da Dante, da due sostantivi, due aggettivi e nessun verbo (che invece ai Friulani era stato ‘concesso’!), si possano far emergere implicazioni oracolari circa il futuro sociale e politico della Sardegna. Tutto questo è per me tuttavia marginale – e lo lascio volentieri all’analisi o esegesi di altri, dantisti o storici di mestiere – rispetto alle porzioni di frase da me sottolineate, in cui si nomina Gobetti. Essendo cresciuta ed educata in Romania, e non essendo storica o politologa di professione, sulla figura di Piero Gobetti (Torino 1901- Francia 1926; vittima di violenze squadriste) avevo acquisito vaghe notizie soltanto in Italia. Vaghissime, in verità, ma evidentemente non tanto vaghe da non ‘fiutare’ che qualcosa non quadrava nell’attribuzione a Gobetti dell’idea sulla pessimistica e deterministica ‘preveggenza’ dantesca. E quindi ho deciso di verificarne le fonti. Il che non è stato difficile ma ha richiesto del tempo e soprattutto l’aiuto di tante persone gentili e competenti (tutte donne, per inciso).

Partiamo dalla menzionata nota 39 del saggio di Selenu, a p. 109: “Il saggio Il problema sardo comprende tre saggi pubblicati in «La rivoluzione liberale» [seguono anno – 1924 -, volumi, pagine]. I saggi sono stati uniti e ripubblicati sotto il titolo Il problema sardo, in Piero Gobetti, Opere complete: Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Torino, Einaudi, 1960 [in realtà 1969], vol.1, pp. 709-732. Gobetti dice [p. 709]: «Dante divinò l’oscura crisi di questo popolo [sardo] quando scrisse nel De Vulgari Eloquentia che i sardi non avevano volgare e scimmiottavano il latino. Egli scolpì così l’incapacità del paese [=Sardegna] a una vita autonoma e a una civiltà originale, cogliendo del pari la necessità di certi atteggiamenti di parassitismo che vedremo connessi con le condizioni del suolo.»”

Ma lo storico Paolo Spriano, curatore delle opere di Gobetti oltre che amico di famiglia, avverte a pie’ di pagina: “Questo studio [Il problema sardo] è tratto dalla tesi di laurea di un giovane collaboratore, Augusto Mazzetti.” E’ assai probabile che P. Spriano avesse ricevuto il chiarimento direttamente da Mazzetti, a Torino, mentre preparava l’edizione (ipotesi della prof.ssa E. Alessandrone Perona). Dunque, autore del saggio è A. Mazzetti, e Gobetti lo pubblica in tre tranches. “Gobetti, d’altra parte, non era un pensatore o uno studioso sistematico, ma «un agitatore d’idee, lucido, intrepido, appassionato» […]”13. A parte la chiara annotazione di Spriano, che ho letto in seguito, in un saggio del 2007 di Paola Sirigu14, trovato in rete, Il problema sardo era attribuito correttamente a Mazzetti.

Chi è Augusto Mazzetti? Anzitutto non so se coincida coll’omonimo poeta, giornalista ecc., presentato nell’articolo qui in nota15, anche lui nato nel 1901. Ho invece verificato a Torino, su documenti originali (carriera di studi universitari e tesi) quanto segue: nato a Torino il 14.1.1901. Si immatricola (n. di matricola 7537) nell’ottobre del 1918 alla Facoltà di Giurisprudenza. Si laurea nel luglio del 1923 con una dissertazione di Economia politica seguita dall’economista Achille Loria, tesi che viene valutata con punti 95/110. Successivamente s’iscrive a Lettere e Filosofia, senza sostenere nessun esame (1924-’25). Nel 1927 ritorna alla Facoltà di Giurisprudenza, iscrivendosi al corso di laurea di Scienze politico-amministrative, ma sostiene un solo esame di lingua francese. La sua tesi è una “indagine”, così la definisce a p. 46, compiuta su numerosi fonti scritte, e non un’inchiesta, come detto da P. Sirigu. La tesi è consultabile all’Archivio storico dell’Università di Torino (n. 3158), dove è stata restaurata a causa dei danni subiti durante l’alluvione del 2000. Ha 48 pagine dattiloscritte, ancora leggibili.

Non mi addentro, come dicevo, nell’analisi e negli echi delle frasi introduttive alla propria tesi, suggestive a modo loro, di un giovane Mazzetti di ventidue anni. Il voto ottenuto (95/110) fa sospettare che vi fosse qualche perplessità, già allora, in seno alla commissione. Riporto, in cambio, alcune altre sue premesse e riflessioni, da me ricopiate direttamente dalla tesi. “Il Piemonte si trovava in un periodo di vitalità crescente ed ebbe [nel 1720] l’impressione di trovare nella Sardegna la sua catena ai piedi. D’altra parte tutte le manifestazioni più vive della vita sarda tendevano alla Spagna …” (p.3). “… invadenza quasi dispotica dei vicerè di Casa Savoia …” (p.3). “…angherie degli amministratori piemontesi. E’ giusto riconoscere che i piemontesi non avevano offerto ai sardi nessuna prova dei vantaggi del loro governo; trattando l’isola alla stregua di una terra di conquista non potevano neppure, impegnati in una politica estera avventurosa, garantire la pubblica sicurezza; né compiervi le necessarie opere pubbliche per la viabilità e contro la malaria, date le cattive conduzioni del loro bilancio. …” (p.4). “… la legislazione piemontese si occupò pochissimo di opere stradali; e la seguente legislazione italiana trascurò il problema tanto nel ’69 come nel ’75 … si aveva in disistima profonda la regione …” (p.41). Inoltre: investimenti in Sardegna dell’1,4% sul totale per l’Italia, mentre avrebbe dovuto riceverne il 10% cca.; costruzione tardiva della ferrovia (pp. 41-43).

Per concludere ringrazio, nell’ordine dei contatti avuti, la dott.ssa Franca Ranghino (del “Centro Studi Piero Gobetti”, Torino), la prof.ssa Ersilia Alessandrone Perona (studiosa di Piero e Ada Gobetti), la dott.ssa Giuliana Borghino Sinleber e la dott.ssa Paola Novaria (dell’Archivio Storico dell’Università di Torino).

Note

1. https://it.wikipedia.org/wiki/Academia.edu

2. http://thecollege.syr.edu/people/faculty/pages/lang/selenu-stefano.html

3. https://www.regione.sardegna.it/j/v/86?v=9&c=72&file=1997026

4. La ‘linguistica popolare’ di chi ‘popolare’ non è. Il caso della Sardegna, “Bollettino di Studi Sardi”, X, 10, giugno 2018, pp.67-99, cap.4: Lingua vs dialetto; https://people.unica.it/mlorinczi/files/2018/12/Lorinczi_estratto-linguistica-popolare.pdf.

5. Citato in Eduardo Blasco Ferrer, Corso di linguistica sarda e romanza, Firenze 2016, p.106.

6. http://www.danteonline.it/italiano/opere.asp?idope=3&idlang=OR. L’intero trattato dantesco, da cui cito nella traduzione del filologo Pio Rajna (1847-1930), è leggibile all’indirizzo indicato. La prima edizione curata dal Rajna risale al 1896. Lunga recensione coeva a quest’influente edizione a https://www.persee.fr/doc/roma_0035-8029_1897_num_26_101_5495_t1_0116_0000_2, 1887.

7. Si legga in Mirko Tavoni, Che cosa erano il volgare e il latino per Dante, in Dante e la lingua italiana, a cura di M. Tavoni, Ravenna, Longo (Letture Classensi, 41), 2013, pp.9-27; https://www.academia.edu/6509684/_Che_cosa_erano_il_volgare_e_il_latino_per_Dante_in_Dante_e_la_lingua_italiana_a_cura_di_Mirko_Tavoni_Ravenna_Longo_Letture_Classensi_41_2013_pp._9-27.

8. La casa del signore. La lingua sarda nel “De vulgari eloquentia”, 2000/2007; http://people.unica.it/marinellalorinczi/files/2007/06/11-dantesardo2000.pdf.

9. “L’Università di Bologna aveva due nationes, gli intramontani (quelli che provenivano dal di qua delle Alpi, ovvero dalle regioni della penisola italiana) e gli ultramontani, provenienti da oltralpe…”; “L’Università di Oxford, nella quale studiavano soltanto allievi provenienti dalle Isole britanniche, aveva solo due nazioni: i Boreales («nordici»), che comprendevano gli scozzesi, e gli Australes («meridionali»), comprendenti i gallesi e gli irlandesi.”; https://it.wikipedia.org/wiki/Nationes.

10. Pier Luigi Caire, La  questione del confine occidentale d’Italia sotto il rapporto geograficostrategico, etnografico e linguistico, Torino, 1867, p. 22.

11. Enciclopedia dantesca, Treccani, 1970, voce De Vulgari Eloquentia; http://www.treccani.it/enciclopedia/de-vulgari-eloquentia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/.

12. Vittorio Angius, Sardegna, in Dizionario geografico storico statistico e commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, a cura di G. Casalis, Torino, vol. XVIII ter., 1853, p. 138.

13. Marco Scavino, Il liberalismo rivoluzionario di Piero Gobetti, p. 11; http://www.israt.it/images/abook_file/atc000138.pdf.

14. Il codice barbaricino, Cagliari, Zedda, 2007, p.164 (https://books.google.it/books?redir_esc=y&hl=it&id=RLi4-cERxFsC&q=mazzetti#v=snippet&q=mazzetti&f=false). Ma P. Sirigu è in errore nel definire “inchiesta” il testo di Mazzetti. E su altre sue affermazioni successive bisognerebbe ritornare. Comunque, Sirigu segnala nella stessa pagina che “La rivista liberale” è consultabile on-line, all’indirizzo http://www.erasmo.it/liberale/. E quando si cerca nella rivista digitalizzata, http://www.erasmo.it/liberale/ricerca.asp, i tre articoli sulla Sardegna sono attribuiti ad Augusto Mazzetti; sono scaricabili. Nella loro bibliografia figura Niceforo, La delinquenza in Sardegna (Palermo, 1897, che nel testo non viene citato espressamente), ma non Lombroso.

15. https://medium.com/@crpiemonte/oh-lago-lago-lago-ba8ac0e71b5c, 2018, “Oh, lago, lago, lago! Sciogliermi infine con te, per essere un giorno pescato come un antico luccio”. Il lago d’Orta nei versi di Augusto Mazzetti, vissuto tra il 1901-1978.

1 Commento a “Esiste un “fiuto” culturale? A proposito di una “profezia” di Dante”

  1. Marinella Lőrinczi scrive:

    Voglio solo chiarire che laddove cito la NATIO medioevale, si tratta del sostantivo latino significante “nazione”.
    Colgo l’occasione per ringraziare la redazione per aver accettato il contributo e per augurare a tutti un 2020 felice e prospero.

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