Giù le mani da Porto Ferro

1 Marzo 2017
Marcello Madau

Dopo la pubblicazione del PUL (Piano Utilizzo Litorali) del Comune di Sassari, si è animata sul web una vivace opposizione contro l’ipotesi di installare tre stabilimenti ‘sostenibili’ (ovvero con un grado dichiarato rilevante di reversibilità) nella magnifica baia di Porto Ferro, luogo di forte senso e qualità paesaggistica, situato in un tratto della costa occidentale, ancora in comune di Sassari ma confinante e ‘solidale’ con quella di Alghero. In pochi giorni si è costituito, con numerosissime adesioni, un comitato da uno slogan piuttosto chiaro: “Giù le mani da Porto Ferro”.

Il sito in questione è un compendio paesaggistico straordinario, singolare. La spiaggia lunghissima, le rocce imponenti, di fronte un mare forte e profondo, marginato da tre torri spagnole: Bantine Sale a Sud, prima del Porticciolo, Negra e Airadu a Nord, costruite fra il 1572 ed il 1578 per proteggere la costa dagli attacchi dei saraceni.

Da una domus de janas non più esistente provengono magnifici idoletti femminili tardoneolitici, del tipo ‘a traforo’; ad Est il vicino lago di Baratz, unico specchio d’acqua dolce dell’isola, fra la medievale Barace e l’antica Nure. Un sito denso di storia, dal forte impatto visivo; ecosistema importante e assai delicato, fatto di dune, vegetazione e fauna particolari, risorgenze di acqua dolce ahimè da tempo in crisi (forse Bramazza, la “sorgente di buone acque per provvista di bevanda ai naviganti’ ricordata nell’Ottocento da Vittorio Angius). Non a caso si tratta di un SIC (Sito di Importanza Comunitaria). Questo a brevi linee il paesaggio culturale.

Sono rilevanti le questioni giuridiche legate al sito, tutelato dalla legge 42/2004 (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) e da una lunga serie di norme regionali, nazionali ed europee, al quale si sovrappone anche un parco geominerario storico ed ambientale (Porto Ferro, Argentiera e la Nurra) riconosciuto dall’UNESCO. Norme ed apparati per una problematica complessa, beni pubblici e beni comuni.

Che mare e spiagge fossero beni comuni è concezione già presente nel diritto romano (se ne discuteva attorno al grande tema delle res communes omnium). Ma oggi il termine assume nuova forza e una complessità di significati per tutela del paesaggio, democrazia, identità e modelli di economia ambientale, fondamentali per il futuro della Sardegna: nel nostro caso la salvaguardia di un compendio paesaggistico speciale, l’identità come percezione dei luoghi da parte delle popolazioni residenti (si veda la Convenzione Europea del Paesaggio), l’economia ambientale che, nella traccia generale dello sviluppo sostenibile, ragiona sul modello di evoluzione del ‘patrimoine’ e della sua relazione con fruizione e turismo; infine la possibilità di esercitare il governo dei beni comuni attraverso procedure partecipative non certo esauribili in qualche riunione istituzionale e neppure nei 60 gg. di tempo per le osservazioni a partire dalla pubblicazione sul BURAS.

Nel piccolo come nel grande: si pone anche qua un problema di autogoverno del territorio sardo e, assieme, di scelta su valori, contenuti e pratiche sul quale fondarlo. Uno dei problemi più seri della Sardegna e della sua classe politica è la difficoltà, più spesso l’incapacità, di mettere a punto modelli di intervento adeguati alle straordinarie risorse culturali e di paesaggio. Ci sono varie gradazioni di questa incapacità. La più grave, almeno apparentemente, è ignorare proprio la risorsa, e certo apparirebbe già rilevante coglierne almeno l’importanza, poter discutere di ciò.

Al Comune di Sassari i favorevoli dicono: si tratta di poca roba rispetto alla grande estensione della spiaggia, sistemata non in posizione centrale, da realizzarsi con materiali eco-compatibili e facilmente smontabili. Ed è nota, mi permetto di aggiungere, la serietà dei professionisti convolti: ma si tratta comunque di 482 sedie a sdraio e 225 ombrelloni, più annessi e connessi.

In questo caso perciò l’errore può essere più insidioso dell’ignoranza, e riposa nella scelta politica basata su schemi di uso di una spiaggia elementari e di media qualità. Modelli che, dietro la reversibilità dell’intervento, non solo rischiano di portare ad un impatto antropico condensato e costante, ma soprattutto di rendere appannata una risorsa unica nelle sue caratteristiche di paesaggio aspro, profondo e irripetibile. Se uno vuole Rimini, il modello è altrove. Oppure ascolti l’ottimo brano di Fabrizio De Andrè.

Naturalmente la sfida pretende anche il superamento dell’ideologia del luogo selvaggio da ‘lasciare così com’è’, interpretando questa esigenza fondamentalmente corretta dotandola di attenzione, tutela, miglioramento dei servizi di pulizia e sicurezza. Accompagnandola quotidianamente di una civica responsabilità ambientale che deve aumentare e diventare sistema.

Anni fa, per dimostrare il fatto che la natura è cultura, invitai alcuni miei studenti a riflettere se la percezione, e la passione, di alcuni uomini paleolitici di fronte a una bellissima scogliera potesse essere uguale, o anche solo simile, alla nostra percezione contemporanea. Dal dialogo emerse che la differenza starebbe nel contesto diverso, nell’assedio al paesaggio sviluppatosi in modo crescente nella storia dell’uomo. Noi manifesteremmo più entusiasmo, e stupore… Oggi voler salvaguardare un posto e un segno del genere è un fatto certamente ambientale, ma soprattutto culturale.

Porto Ferro è un luogo magnifico che ci pone una sfida alta e complessa che merita ben altra valorizzazione che l’inserimento di tre stabilimenti balneari. Adeguata e rispettosa della natura del luogo, capace di un‘offerta di qualità inserita in un sistema più generale in grado di proteggere, salvaguardando il luogo e la sua forte immagine ‘selvaggia’.

Dalla difesa e proposta di questa configurazione credo che si possano trarre e produrre alti valori economici di piena sostenibilità ambientale. Nell’offerta generale, questo tratto del paesaggio costiero nord-occidentale della Sardegna dovrebbe vivere in un contesto di corretta alternanza fra spiagge libere attrezzate – la cui percentuale deve essere rilevante, come è noto – e stabilimenti balneari. Porto Ferro, per la sua fortissima personalità può rappresentare uno dei ‘pochi’ grandi siti ‘conservati’ senza ombrelloni, che qualificano in modo positivo il paesaggio sardo, la sua fruizione e la sua percezione.

La discussione nel merito è preziosa e importante per molti motivi, compreso quello delle buone pratiche di democrazia e di gestione dei beni comuni: questi ultimi dimostrano nuovamente la capacità di mobilitare passione e impegno civile e di essere l’unica realtà in grado di attraversare, e a volte rovesciare, le logiche dei partiti politici e la loro debole governance (indicando per i sardi che si mobilitano una sensibilità ambientale molto forte, per ora assente da altri tavoli). Porto Ferro è un paesaggio libero che è nella memoria e nell’identità del luogo, e vale davvero la pena di proteggerlo.

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