Guerre e industrie di armi

26 Giugno 2025

[Francesco Casula]

Le guerre le fanno (oramai senza più dichiararle) gli Stati e i militari. Ma le propagandano, da sempre, le industrie delle armi.

E da sempre per motivi economici e di supremazia e dominio geopolitico. Le motivazioni “nobili” che spesso si adducono (guerre di difesa, guerre preventive, guerre per la libertà e la democrazia, guerre religiose, guerre etniche) sono, ieri come oggi pretesti, alibi o più precisamente mascherature ideologiche.

Il caso paradigmatico del rapporto stretto e corposo tra guerra-industria delle armi ci viene offerto dalla I Guerra mondiale.

Quando nel 1914 scoppia, l’Italia non entra in guerra. Il Parlamento si dichiara neutralista, composto com’è da liberali socialisti e cattolici, tutti contrari, sia pure con motivazioni diverse.

Sciaboletta (alias Vittorio Emanuele III, il tiranno sabaudo delle leggi razziali e del fascismo) insieme al capo del governo, Salandra e al ministro degli esteri, prima San Giuliano poi Sonnino, per un anno intero sfianca il Parlamento per convincerlo a dichiararsi favorevole all’intervento bellico, come avverrà. Fra l’altro con delle motivazioni fasulle: liberare le terre “irredente”.

Sappiamo che quella motivazione era falsa: l’Austria si era infatti resa disponibile a cedere all’Italia, se fosse rimasta neutrale, tutte le cosiddette terre irredente. E Giolitti, il gran capo dei liberali, in una lettera privata che poi sarà pubblicata dal Quotidiano “La Tribuna”, aggiungerà “E parecchio di più!”.

Ma questa balla delle “terre irredente” viene ancora distribuita a piene mani anche oggi nei libri scolastici e non solo. Nonostante che fin dagli anni ’60, don Lorenzo Milani, il battagliero prete fiorentino della Scuola di Barbiana, in una lettera ai Cappellani militari smentisse quella balla colossale.

Bene, le industrie delle armi dunque. Tra lo scoppio della guerra e l’adesione dell’Italia, in ogni modo sollecitano incoraggiano propagandano l’interventismo e sponsorizzano tutti quei gruppi (nazionalisti, futuristi, dannunziani) che lo sostengono. Per intanto finanziando i loro giornali. Ad iniziare dal Quotidiano “Il Popolo d’Italia”, fondato dall’innominabile, il figlio del fabbro di Predappio che dopo essere stato un neutralista radicale, da vero voltagabbana, diventa interventista, chiassoso e violento.

A finanziare il nuovo Quotidiano di Mussolini vi è l’Edison (con Carlo Esterle); la FIAT (con Giovanni Agnelli); l’Unione Zuccheri e della siderurgia di Savona (con Emilio Bruzzone); l’Ansaldo (con Pio Perrone); gli Armatori genovesi (con Luigi Parodi).

Ma verranno finanziati anche molti altri Quotidiani: “L’Idea Nazionale”, che da settimanale diventerà quotidiano, sostenuto dal vicepresidente della FIAT, Dante Ferraris, interessato personalmente alle industrie belliche. E ancora “Il Secolo XIX” di Genova (con i Perrone dell’Ansaldo); “Il Messaggero” di Roma e “Il Secolo” di Milano (sempre con i Perrone).

La grande borghesia industriale vede nella guerra un’occasione formidabile per fare immani profitti con le commesse dello Stato di armi e materiale bellico: e così infatti sarà.

La FIAT negli anni 1915-18 venderà allo Stato 10 mila cannoni e 10 milioni di proiettili oltre a carri militari (Fiat 18 BL e Fiat 45 TER), mitragliatrici (Fiat Revelli mod.1914) e aerei (Fiat BR).

Mentre l’Ansaldo venderà motori di aerei (24mila negli anni 1915-18), cannoni navali (381), autocarri militari mitragliatrici e corazzate.

Ma non è solo il motivo economico che spinge l’industria delle armi a sostenere e volere la guerra: con la coscrizione obbligatoria e, dunque, l’arruolamento di decine e decine di migliaia di giovani, le industrie si “liberano” di operai “fastidiosi” per le imprese, combattivi nel difendere non solo il salario ma le condizioni di vita in fabbrica, con scioperi e manifestazioni.

Scrive a questo proposito uno dei più grandi storici italiani, Giorgio Candeloro: ”La scelta interventista presentava per gli industriali (oltre che gli immani profitti nda) altri due importanti vantaggi, che peraltro si manifestarono chiaramente solo dopo l’entrata in guerra: la disciplina di guerra col conseguente indebolimento del potere contrattuale e della combattività delle organizzazioni operaie e l’inquadramento nell’esercito di masse notevoli di potenziali disoccupati grazie alla mobilitazione generale” 1

Nota bibliografica

1. Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, VIII, Feltrinelli editore, Milano, 1979, pagina 74-75.

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