I 60 anni di Benigni

1 Novembre 2012
Francesco Mattana
Un folletto senza età, che scansa l’anagrafe saltellando da una liana all’altra nella foresta dei comici. Questo è Roberto Benigni. 60 anni, e non dimostrarli. Che poi oggidì, 60 anni cosa sono? È il mezzo del cammin di nostra vita, in cui però non sempre ci si ritrova in una selva oscura. Quando si ha la forza morale di Benigni, l’ottimismo della volontà unito al senso critico della Ragione, il cammino è limpido, rettilineo, senza dossi. Negli ultimi anni si ha quasi l’impressione che l’attore toscano abbia avuto una sorta di crisi mistica: la veemenza retorica con cui esalta il percorso dantesco dall’Inferno al Paradiso lascerebbe intendere che Benigni, dopo l’Oscar, ambisca dritto dritto alla santità. Le cose, ovviamente, non stanno così: Benigni è un uomo con la testa sulle spalle, ha perfettamente chiaro il senso del limite, e si sente uomo tra gli uomini. Il fatto è che, in più di trent’anni di percorso artistico, si è conquistato una credibilità che nessun altro artista ha in Italia. Se, poniamo il caso, Checco Zalone si mettesse in testa di fare uno spettacolo sulla nostra Costituzione, il risultato finale sarebbe uno spernacchiamento generale. Benigni no: il pubblico, e la critica, rispettano e apprezzano la sua scelta. E possiamo scommettere che la sua lezione, a dicembre su Raiuno, farà il botto di ascolti.
Di una cosa si può star certi: Benigni ha festeggiato il suo compleanno in maniera appartatissima, con la sua Nicoletta. Qualcuno potrebbe stupirsi che un personaggio così esuberante sia così geloso della propria vita privata. E invece, è la conferma che un vero artista sa creare una linea di demarcazione netta tra l’uomo e il personaggio. Laddove la maschera è sfacciata, impertinente, sopra le righe, l’uomo al contrario è semplice, schivo, impermeabile alla cultura da rotocalchi. Si cita spesso il ‘paradosso del clown’, che una volta gettata la maschera si riappropria della sua tristezza tra le mura di casa. Benigni però non è un uomo triste: è solo un signore di mezz’età che quando non appare in pubblico legge, si informa, porta a spasso il cagnolino Pinocchio. E nelle sue passeggiate romane si guarda intorno, osserva, prende appunti e li memorizza nel suo cervello vulcanico.
Qualcuno lo accusa di essere furbo. È vero, ma ogni tanto anche i furbi sgarrano. Nel ’99, dopo l’Oscar a La vita è bella, aveva l’America in mano. Sembrava un’ascesa inarrestabile: il Benignaccio nell’Olimpo di Hollywood, che penzola sopra la testa di Steven Spielberg (magari pure un po’ imbarazzato, il mitico regista, di fronte a tanta incontinenza). Poi qualcosa è andato storto: il suo Pinocchio, che avrebbe dovuto certificare in maniera definitiva il successo planetario, proprio in America è stato un fiasco. Inutile nasconderlo: ci rimase molto male. Rilanciò tre anni dopo con La tigre e la neve, e quella volta andò maluccio perfino in Italia. Insomma, il Benigni cinematografico ha imbroccato un clamoroso passo falso. E di certo, l’apparizione nel film di Woody Allen non ha reso giustizia al talento del toscano. Poco male però: in America non se lo fila più nessuno, ma in compenso in Italia è rimasto il mito di sempre. Non è dato sapere -perché Benigni parla pochissimo di sé nelle interviste- che rapporto abbia col passato. Di sicuro, però, gli italiani ricordano perfettamente il suo passato costellato di commedie brillanti, che hanno colpito l’attenzione di tutti, senza distinzioni di censo o di istruzione. L’ingenuo Dante di Johnny Stecchino, che ruba le banane e si ritrova immischiato in una faccenda più grande di lui; il piccolo diavolo Giuditta, che dà filo da torcere all’esorcista Walter Matthau; il Loris del Mostro, protagonista involontario di un caso di malagiustizia. Fino ad arrivare al giovane ebreo Guido de La vita è bella, che ha toccato le corde del cuore di mezzo mondo, lasciando perplessi quei pochi cinici che provano gusto nel guastare la festa. Non riuscendoci.
Nicola Piovani, nello sforzo di riassumere con una battuta la personalità multiforme di Benigni, ha azzeccato l’espressione giusta: “Roberto è un endecasillabo perfetto”. La formula è efficacissima, ma non dimentichiamo che, quando ci si mette, Benigni sa essere anche un sonetto graffiante, sanguigno, alla Aretino. Lo accusano di essere diventato buonista, ma ogni tanto riaffiora il ragazzaccio sboccato di Televacca, che negli anni settanta disturbava i sonni dei dirigenti Rai. Berlusconi è da anni il suo bersaglio preferito. Nella sua satira contro il Cavaliere,. C’è innanzitutto il rifiuto di uno stile di vita basato sullo stra-lusso, sulla pacchianeria, sui valori effimeri. Magari con bonarietà, perché alla fine dei conti Benigni è un artista bonario, però la sua satira è un gesto civile. Una presa di posizione a favore dell’Italia normale, dei sani principi. Una nostalgia, forse, di un’Italia contadina che non c’è più. E che grazie alla testimonianza, verbale ma soprattutto fisica di Benigni, ci viene restituita in frammenti. Frammenti di felicità, per chi ha la fortuna di osservarlo all’opera.

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