Identità urbane e archeologie della sovversione

1 Giugno 2008

Arco di Tito
Marcello Madau

Il disvelamento dei ruderi del castello medievale di Sassari e le nuove mille e più tombe cagliaritane a Tuvixeddu sembrano salutate con rilievo e addirittura enfasi dai mezzi di comunicazione di massa. Inevitabile ambiguità di un messaggio ormai di moda: accolto finalmente il concetto dell’importanza del patrimonio culturale e ambientale, la dominanza dell’evento di consumo tende ad annullare, trasformandoli in noiosi allegati, aspetti fondamentali come quelli che nella realtà pongono gli stessi ritrovamenti: le testimonianze archeologiche, soprattutto quelle che giacciono sotto i nostri piani pavimentali e stradali, sono portatrici di un messaggio sovversivo verso la città contemporanea e la maniera con la quale essa viene normalmente vissuta, pensata, costruita, pianificata, poiché la superficie del nostro vivere, alla lettera superficiale, viene messa profondamente in discussione dal sottosuolo archeologico.
Si cerca allora di addomesticare la traccia polisemica e oggettivamente collettiva delle stratigrafie (vi può essere un’epoca prevalente nella storia e nelle realizzazioni, ma i sotterranei dei nostri piani di attraversamento e vita urbana normale portano in sé molte vicende) in modo da ricondurle alle nostre normalità: salvando una prospettiva interessante per il quadro creativo di un urbanista, oppure un oggetto per il consumo culturale dei turisti, o ancora una discriminante ideologica che serva a questa o quella identità, o ad una mostra di successo. Questa è l’essenza delle abitudini prevalenti di noi cittadini dell’effimero, integrati o subordinati al rito del consumo e del consenso, nella variabile indipendente del tornaconto singolo e della speculazione.
La presenza del passato nei contesti abitativi della contemporaneità è fatto assai rilevante, declinato con diversa e crescente intensità da millenni, ma solo nell’età moderna, con la crescita dell’uso del territorio urbano appare nella forza complessa che continuamente vediamo.
Sono ormai millenni – come nella memoria cerebrale – che si formano strati, sovrapposizioni, successioni, civiltà con storie e ruderi relativi; che le stratigrafie, l’essenza stessa dell’archeologia, si fanno sempre più complesse e profonde. In questo lungo percorso la vicenda archeologica passa progressivamente dal racconto materiale del mito all’elencazione di serie regali (come nell’Egitto), talora accompagnate da minuziosi dettagli di archivio (come nel mondo assiro), per passare alle raccolte erodotee e poi alla Storia (e all’archeologia) ‘scientificamente selettiva’ di Tucidide.
Che luogo hanno le memorie nella città? Occupano lo spazio del mito, o dei mausolei, dalla vittoria sui giganti nell’acropoli di Atene alla tomba di Achille nella piana di Troia o a quella di Enea a Lavinio. Le testimonianze archeologiche dei morti sono ai limiti dello spazio urbano, mentre i resti delle epoche precedenti sono quasi ineluttabilmente spoliati, rasi al suolo, oppure se ne riusa il materiale edilizio. In casi molto speciali (generalmente grandi luoghi memoriali e templi) vediamo ristrutturazioni ed ampliamenti, tali da lasciare almeno qualche antica traccia. Ma l’inserimento tout court del documento archeologico nei luoghi abitati, non legato ad istanze celebrative, passando dai paesaggi di rovine al romanticismo attraverso le selezioni utili alle nuove città della rivoluzione industriale capitalistica, è fatto che nella sostanza succede da poche centinaia d’anni.
Pur tuttavia, la presenza del passato dentro la città di oggi è ancora legata – quando i resti delle epoche precedenti non vengono massacrati dallo sviluppo urbanistico – ad una visione riduttiva, alle discriminanti estetiche o a quelle dell’urbanistica tradizionale, o ancora alla museificazione.
E’ allora utile partire dalle idee di Argan, Bianchi Bandinelli e Cederna, sviluppandole e aggiornandole alle nuove esigenze e alle nuove sfide: la testimonianza archeologica non supererà l’ottica idealistica finchè non si deciderà di assumerla nel suo insieme come soggetto attivo dello spazio e della stessa configurazione urbanistica. Non è sufficiente conservare questo o quel monumento di particolare pregio, e una scelta del genere, se non segue la piena consapevolezza delle serie stratigrafiche – le chiamerei i giacimenti dell’identità – conservate nel sottosuolo, appare all’antitesi dell’idea di una città vissuta nella sua pienezza storica.
Organizzare un’identità urbana significa non lasciare più in secondo piano il passato sepolto, bensì renderlo esplicito attraverso collocazioni precise, sia a vista che sotterranee, costruendo piani e percorsi ipogeici, se necessario diversificati. Significa non considerare tutto il passato come una tomba collettiva o un museo, ma come una serie di luoghi ri-abitati e con i quali rapportarci fisicamente, uscendo dai musei e dalle visite guidate. Significa costruire cittadini e cittadinanze più ricche.
La conseguenza di questo discorso è che nella stessa coscienza urbanistica il ruolo dell’archeologia, e assieme della storia dell’arte, non può essere più considerato come allegato professionale (e non solo perché non esiste un riconoscimento professionale per queste due categorie), ma deve essere posto al centro delle decisioni progettuali della pianificazione urbanistica, ben oltre la doverosa tutela.
E’ un’idea a volte accettata a parole, o in qualche singola realtà, ma ben lontana dall’essere davvero accolta (persino negli stessi ambienti più sensibili, accorti e avveduti si organizzano – dopo i clamorosi rinvenimenti archeologici delle città sarde – ‘Interpretazioni dei luoghi’ con meritoria serie di sensibilità, da quelle urbanistiche a quelle psico-giuridiche a quelle sociologiche, artistiche, musicali, giornalistiche, fra le quali non appare quella archeologica). Per vivere meglio le nostre città penso sia utile camminare anche con uno sguardo più in basso dei nostri piedi, e più alto della nostra fronte. Sopra la nostra testa, le poetiche degli artisti, sotto i nostri passi, le tracce delle identità sepolte.
Se condividiamo questa idea di città, dirò en passant (perché la discussione su Tuvixeddu si è riaccesa dopo l’impertinente apparizione di migliaia di tombe puniche negate e nell’attesa dell’importante pronunciamento del Consiglio di Stato) che risulta ancora più istruttivo il confronto tra le due Cagliari che emergono – a prescindere dalle questioni giuridiche – dalla relazione degli esperti della Regione Sardegna su Tuvixeddu e da quella del TAR: la prima attenta alle stratificazioni dei luoghi, assumendone la stessa toponomastica storica, l’altra che separa nei fatti dal paesaggio contemporaneo, creando una sorta di Riserva Indiana, la memoria archeologica.
Non è perciò più pensabile programmare città, e lavori pubblici, senza una preventiva e vera mappa archeologica e soprattutto la scelta consapevole di togliere dall’oblio una serie di ‘luoghi sepolti’.
La direzione è quella di costruire spazi condivisi, beni comuni nei quali praticare un’arte pubblica (con nuove modalità site-specific) non limitata agli aspetti celebrativi (da sempre utili per camparsi: vedi la serie infinita di – orribili – monumenti e mostre ai caduti, alle varie personalità, alle retoriche nazionali) ma lavori su quelli dell’identità urbana, complessa, stratificata e meticcia per sua natura, che assuma nel proprio essere contemporaneo le storie precedenti. Luoghi praticabili, interazioni poetiche permanenti, azioni/situazioni di critica radicale se necessario.
Per questo tipo di città non basta più, quindi, l’archeologia strumentale degli urbanisti o quella della tutela. Ci vuole un’interazione creativa dei saperi in azione costante che restituisca la memoria ai luoghi, e con essa l’identità. Che sappia andare verso una città disegnata a più mani, affiancando agli architetti urbanisti l’unione sovversiva di archeologi, storici dell’arte e artisti, per trasformare in bene comune la serie superficiale, mediocre e speculativa degli spazi urbani odierni.

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