Il 2 giugno i sardi hanno poco da festeggiare

1 Giugno 2020
[Francesco Casula]

Chi ritenesse che almeno quest’anno, in virtù della devastante e drammatica pandemia del corona-virus, il 2 giugno ci avrebbe risparmiato le tradizionali dosi industriali di insulsa retorica patriottarda italica, temo che sarà deluso.

Certo, non ci saranno le guerresche parate militari ad attraversare i Fori imperiali ma le costose e inutili frecce tricolori continueranno a solcare i cieli di Roma, addirittura dopo il tour in tutte le principali città italiane, Cagliari compresa. In più la destra – con i neofascisti di FdI in prima fila – minaccia e assicura, irresponsabilmente, manifestazioni e proteste, tutte ne son certo, accompagnate dal tricolore, mascherine comprese.

E anche quest’anno, son convinto che tutti i Media, ci ammorberanno con vuote viete e roboanti dichiarazioni sulle magnifiche sorti e progressive della Repubblica.

Sia ben chiaro, a scanso di equivoci: la liquidazione del funesto ventennio fascista, liberticida violento e antisardo, non può che essere salutato con favore da tutti, insieme alla cacciata dei tiranni sabaudi, simboli e rappresentanti di una immane oppressione e repressione, durata per la Sardegna ben 226 anni.

Ciò premesso, occorre denunciare che in questi 74 anni di “Repubblica” i problemi dei Sardi, sono rimasti sostanzialmente irrisolti e le endemiche ataviche e vecchie ferite, rimangono ancora aperte: per cui non abbiamo nulla da festeggiare. Caso mai dobbiamo riflettere e cercare di capire quello che è successo in questi tre quarti di secolo da quel 2 giugno del 1946.

Prendendo atto che la nostra Isola, anche con lo stato italiano repubblicano, viene ancora considerata, trattata e utilizzata alla stregua di colonia d’oltremare, una colonia interna, in cui allocare ieri, industrie nere e inquinanti (segnatamente quelle petrolchimiche) e stazione di servizio per basi e servitù militari (che tutt’ora permangono), e oggi pascolo più o meno abusivo per multinazionali, italiane e straniere, che hanno disseminato l’Isola di foreste di pale eoliche e di serre fotovoltaiche: con milionari profitti (e incentivi) per loro e briciole per i Sardi: cui lasceranno per il futuro, devastazione ambientale e desertificazione.

Si dirà che il 2 giugno ha consegnato all’Italia una nuova costituzione democratica, la più bella del mondo, è stato scritto. Può darsi. Purché si precisi che parti importanti non sono mai state applicate, rimanendo pure petizioni di principio. E si ricordi altresì che essa è inficiata, pesantemente, da un articolo liberticida: quello che prevede la repubblica “una e indivisibile” (art.5). In virtù del quale la “secessione” è addirittura un reato (art. 241, Attentati contro la integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato) da punire con la reclusione non inferiore a dodici anni. Con buona pace del diritto dei popoli alla Autodeterminazione – e dunque alla Indipendenza e persino alla secessione e separazione – garantito dal Diritto e da tutte le Convenzioni internazionali.

Si dirà ancora che la Sardegna ha avuto uno Statuto speciale di Autonomia. E vero: ma a parte che in esso neppure si fa cenno a tutta la fondamentale Quaestio etno-storico-culturale- linguistica, occorrerà ricordare che esso “è stato negoziato con lo Stato  – scrive l’accademico e storico sardo Salvatore Sechi – senza disporre di nessun potere contrattuale su cui far leva (un movimento di lotta, l’unità dei Partiti sardi, una elaborazione teorica e giuridica definita ecc…). Nata come concessione del nuovo Stato (in realtà il vecchio sopravvive e fa valere le prerogativa della continuità centralistica) la Regione non assolve né al ruolo di vox populi né a quella di suo defensor. Gli assessorati sono varianti indigene dei ministeri e degli apparati amministrativi romani da cui importano gli organici, i codici di comportamento e la mentalità burocratica-conservatrice”.

“Il modo di far politica – cito ancora Sechi – è quello della compensazione dei micro interessi e coincide con una pratica di erogazione a raggiera spartitoria e clientelare”.

Ovvero spartendo risorse e assistendo gruppi di interesse, senza identità collettiva. Con una borghesia, sostanzialmente compradora e, comunque per lo più improduttiva che preferisce vivere sulle concessioni dello Stato.

Ciò non avviene solamente nei primi decenni di dominio democristiano ma anche con la politica della cosiddetta “Intesa autonomistica”, quando il PCI fu cooptato nelle pratiche di governo. E continuerà anche nelle successive Giunte regionali: quella attuale compresa.

Visti questi risultati, possiamo considerare sostanzialmente fallita l’Autonomia e con essa il progetto di Rinascita, tutto giocato sull’ industrializzazione, fatto di promesse ma anche di illusioni programmatorie e petrolchimiche, che ha lasciato in Sardegna, un cimitero di ruderi industriali ma soprattutto disoccupazione, malessere, inquinamento, spopolamento e nuova emigrazione: questa volta di qualità, non come negli anni ’60, dequalificata e generica. Ad abbandonare la Sardegna sono infatti viepiù giovani laureati: risorse preziosissime che potrebbero, qui in Sardegna, mettere a disposizione le loro professionalità e competenze per la ricerca e l’innovazione e che invece sono costretti a emigrare.

Ad accentuare viepiù lo spopolamento, che pur già in atto, rischia di diventare drammatico nel prossimo futuro. Anche perché lo Stato  progressivamente sta liquidando tutti i servizi e presidi sociali (dalle Scuole alle Poste, agli  Ospedali, ecc.).

Con lo spopolamento – che afferisce soprattutto alla Sardegna “interna” – l’Isola rischia di ridursi a una ciambella: con uno smisurato centro abbandonato, spopolato e desertificato: senza più uno stelo d’erba. Con le comunità di paese, spogliate di tutto, in morienza. Di contro, con le coste sovrappopolate e ancor più inquinate e devastate dal cemento e dal traffico. Con i sardi ridotti a lavapiatti e camerieri. Con i giovani senza avvenire e senza progetti. Senza più un orizzonte né un destino comune. Senza sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un centro: come pecore matte.

Che cosa dobbiamo festeggiare?

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