Il futuro non è TAV

16 Dicembre 2018
[Marco Revelli]

Finalmente si può tornare a respirare a Torino. Come il föhn che ha soffiato dalle montagne per tutto il giorno, l’immenso corteo che ha attraversato il centro ha spazzato via l’aria stantia che ristagnava  sulla città da quasi un mese, dal 10 novembre delle “madamine”. Ristabilendo, con la forza dei fatti, pesi e misure. E insieme ragioni e Ragione.

Lo sapevamo che avremmo dovuto essere davvero in tanti, tantissimi, più di quanti mai erano scesi in piazza dietro le bandiere No TAV, perché i maestri della post-verità – quelli che non stanno nemmeno a contare perché i numeri buoni li stabiliscono loro – avrebbero fatto di tutto per dire che eravamo di meno. Magari numerosi, perché no?, migliaia, certo, ma meno di quelli che loro stessi un mese fa avevano convocato in Piazza Castello, con un gigantesco dispiegamento di mezzi mediatici. Era la condizione per non lasciar svanire la spinta propulsiva di quell’evento che avevano continuato a gonfiare e usare per settimane al servizio della lobby degli affari con i soldi degli altri (per dirla con Luciano Gallino). Avevano già in testa le cifre “giuste”: 20.000 per Repubblica, 15.000 per La Stampa, quelle che infatti a metà pomeriggio avevano anticipato sui rispettivi siti. Esattamente la metà di quelle che con simmetrica manipolazione – moltiplicando allora, oggi dividendo – avevano proclamato per la piazza “buona” del 10 novembre. Poi però la forza dei fatti si è imposta, per una volta almeno, sulle tecniche dello storytelling, per la perentorietà delle immagini, per la fisica dei solidi che permetteva a chiunque, col solo sguardo, grazie alla unità del contesto spaziale, di prendere le misure e comparare: la Piazza Castello che si andava riempiendo quando ancora Piazza Statuto stava finendo di svuotarsi diceva che si doveva essere almeno il doppio degli “altri”. E se di quelli si era detto 30-40.000 mila, di questi non si sarebbe dovuto andare sotto i 70.000 a voler essere onesti (magari 50.000 per restare, come sempre, avari: e così concluderà, con rammarico, Repubblica).

Ma non è solo questione di numeri (questa riguarda solo la propaganda “di sistema”). E’ soprattutto questione di contenuti. E di Qualità. La distanza abissale tra le due piazze Castello – quella delle “madamine” impreparate, per loro ammissione, e quella delle “muntagnine informate”, come recitava uno striscione – era rivelata dalla loro stessa composizione biografica, dai visi, gli abbigliamenti, il colore dei capelli, i reciproci lessici, gli sguardi e le parole con cui comunicavano le rispettive motivazioni (o l’assenza di esse), il rapporto con la “cosa” che stavano facendo, il sedimento di storie individuali e collettive… Si trattava davvero di due “mondi”. Di “due città”, per riprendere un tema ricorrente in letteratura.

Ora, a un mese dall’evento, posato il polverone mediatico e reso agibile il confronto tra le due manifestazioni, possiamo ben dirlo (dare sistematicità a un’intuizione già di allora): quella, tanto celebrata, del 10 di novembre era una “piazza vecchia”. Vecchia anagraficamente (età media sessant’anni), ma anche e soprattutto socialmente, e culturalmente. Una piazza d’Ançien régime, aggregato di “ceti” obsoleti nato sull’asse tra il Notaio Ganelli e il banchiere Giubergia, triangolando con i vecchi amministratori politici licenziati nell’ultima tornata elettorale e con una costellazione di Confindustrie piemontesi orfane del precedente sovrano alla cui ombra erano vissute e dopo il cui esodo americano non sanno che pesci pigliare. Ceti nel senso storico del termine – il tedesco Stände: Ordini, Ranghi, Corporazioni –, identificanti l’interesse generale con la propria sopravvivenza un po’ parassitaria, incapaci di immaginare un cosmo diverso da quello che ne garantisce i privilegi di status e di censo. Quelli che si erano auto-attribuiti il ruolo di “rappresentare il futuro” (il “futuro di Torino” era lo slogan dominante) ne rappresentavano ahimé – tanto drammaticamente quanto plasticamente – il passato: era il “sistema Torino”, il conglomerato d’interessi finanziari, immobiliari e politici che aveva dominato la città per lo meno dagli anni ’90 in poi, e ne aveva gestito il declino, quello che si era presentato in quella piazza sabauda. I falliti della transizione della città oltre il proprio precedente profilo di metropoli di produzione fordista: notai e liberi professionisti arricchitisi grazie ai flussi di risorse dei grandi eventi, si chiamassero Olimpiadi invernali o 150esimo dell’Unità d’Italia, passante ferroviario o ristrutturazione di Parco Dora; commercianti ed esercenti boccheggianti per il calo dei consumi in una città impoverita e attaccati al respiratore automatico di flussi turistici rispetto ai quali non fanno nulla per offrire servizi adeguati; galoppini di partito o ex funzionari piazzati dalla vecchia amministrazione in centinaia e centinaia di Consigli d’amministrazione di partecipate pubbliche a percepirne i gettoni di presenza; imprenditori smarriti per l’assenza di prospettive nei loro settori, dopo aver lesinato oltre il lecito sugli investimenti in Ricerca & Sviluppo e appesi alla speranza di qualche refolo di risorse pubbliche connesse all’indotto di un’Opera inutile; ex burocrati pubblici e privati timorosi del taglio alle proprie pensioni più o meno d’oro; insieme alla folla atomizzata dei lettori affezionati (sempre meno, ma ancora ci sono) dei giornaloni nazionali e delle loro appendici cittadine, convinti davvero dal loro storytelling, dagli slogan semplificanti, dalle mezze o finte verità.

Dall’altra la piazza mobile dell’8 dicembre. Una piazza insieme “storica” e “nuova”. Storica perché aggregata intorno alla spina dorsale valsusina, con i suoi oltre vent’anni di lotta tenace, partecipata, intelligente. Ma insieme “nuova” perché non poteva non colpire la presenza imponente, impressionante, di giovani, di ragazze e ragazzi ventenni, fino a ieri invisibili sulla scena pubblica, e ora emersi alla superficie con una carica di energia pulita, festosi e determinati a prendersi – loro sì – il proprio futuro, senza rancore, senza aggressività (l’atteggiamento non solo pacifico ma sereno di quel serpentone era uno dei dati che più colpivano), senza semplificazioni. E se la Val Susa rappresentava il serbatoio di esperienza e di saperi (nei loro vent’anni di resistenza quei “muntagnini” avevano imparato quasi tutto di quello che occorre sapere sul trasporto ferroviario, i volumi di traffico, le rottura di carico, i sistemi idrogeologici, la produzione di CO2, ecc.), Torino portava la massa, anch’essa enorme, emergente da una società riflessiva, che non si ferma agli slogans, che ragiona e fa di conto, e si preoccupa dello spreco del denaro pubblico come della devastazione dei territori. Portava anche la memoria dei propri tempi migliori, nelle biografie di tanti militanti di base della vecchia sinistra rimasti orfani elettorali, operai ed ex operai con ancora dentro l’orgoglio di produttori, indignati dallo spirito da questuanti dell’imprenditoria cittadina, artigiani, commercianti della periferia, lavoratori precari non coperti dall’assicurazione sociale delle fedeltà politiche, insegnanti imprigionati tra le sbarre della “Buona scuola”, intellettuali non ridotti a intrattenitori di corte, gente abituata a farsi un’opinione propria e a fare a sua volta il fake checking ai fake checking di Paolo Griseri.

Quel “patto generazionale” – quella linea longitudinale di continuità tra passato, presente e futuro – era d’altra parte annunciato nello stesso striscione di apertura del corteo, che diceva appunto: «C’eravamo, ci siamo, ci saremo! Ora e sempre No TAV». Così come l’intreccio tra popolo e istituzioni che rappresenta uno dei tratti più importanti e positivi dell’esperienza in Valle era reso visibile dalla folta delegazione di sindaci in fascia tricolore che lo seguivano. E poi le “partigiane della terra e del futuro”, con in testa un cappello di carta azzurro e su scritto “meglio montagnina che madamin”; i ragazzi che sfilavano dietro la scritta  “Il vostro progresso è nato vecchio, il futuro è nostro”; il cartello con i sei SI (SI a chi non è indifferente; SI a chi è solidale; SI a chi ha il coraggio di lottare; SI a chi non si fa calpestare; SI a chi non si rassegna ai soprusi; SI al movimento NO TAV).

Erano, letti tutti insieme, i termini di una grammatica e di una sintassi che parla di qualcosa sicuramente diverso, rispetto al panorama degradato del nostro presente pubblico (quello appunto della piazza del 10 novembre, fatto di tanti “è così perché è così”, “si deve fare perché si deve fare”, “i miei studenti [assenti] vogliono andare in vacanza a Barcellona”, “il TAV serve a scambiarsi le idee”, ecc.). Un “ordine del discorso” che parla, finalmente, di autonomia di pensiero, attenzione alla complessità, visione lunga nel tempo e ampia nello spazio, non ripiegata sugli slogan di un esistente senza prospettiva ma testardamente impegnata nella ricerca di una via di fuga da esso: di un’uscita in avanti.

Sbaglia, sbaglia di grosso, Ezio Mauro quando comparando, e mettendo sulla stessa bilancia, la piazza romana di Salvini e quella torinese dei No TAV ne deduce il segno di una contraddizione interna al governo, come se quelle entità collettive umane contenute nelle rispettive piazze fossero senza residui riducibili a due soggetti politici e addirittura a due componenti di governo. È un errore – che può rivelarsi fatale per chi intende offrire ai propri lettori un qualche senso di ciò che accade – perché se la piazza romana può, a tutti gli effetti, essere assimilata a una “piazza di partito”, quella torinese no. Sta agli antipodi. È una piazza senza padroni né sponsor politici, e l’ha detto in tutti i modi, in tutti i linguaggi comprensibili purché ci siano orecchie disposte ad ascoltare. Non era e non sarà mai, quella, la piazza di qualcuno. Men che meno di una qualche forza “di governo” (che non ci siano governi amici l’hanno ripetuto da sempre, e anche ieri!). Non certo dei 5Stelle bersagliati, nel corteo da molti slogans e stigmatizzati dagli interventi dal palco. Pensare di ridurre a questione di schieramenti politici una resistenza sociale di territorio di lunga durata e una secessione culturale di grandi dimensioni è un segno di cecità inquietante, comprensibile in un politico quasi fuori-corso come Sergio Chiamparino, inatteso in un intellettuale come Ezio Mauro.

D’ora in poi, qui, come si suol dire, nulla rimarrà come prima. Perché alla fine i profili opposti delle “due Torino” sono usciti allo scoperto, si sono rivelati e contrapposti. Dalla tematica delle “due città” è attraversata nel profondo la storia culturale torinese. Ne parlò negli anni Venti Carlo Levi, sottolineando la perenne tensione tra le “due Torino” separate tra loro dal confine circolare delle “barriere”: la Torino burocratica-amministrativa che abitava il Centro, saldamente occupato da una borghesia medio-alto cresciuta all’ombra della Corte e, intorno, la Torino della grande periferia operaia, carsicamente ribelle, che periodicamente tentava l’assalto alla prima premendo sui confini. Ne ha parlato anche Norberto Bobbio, contrapponendo una “Torino di Gozzano” alla “Torino di Gobetti” («Di vecchia e agiata borghesia il primo, che vive in città ma ha la villa avita in campagna – scriveva Bobbio –; il secondo di piccola borghesia da poco inurbata, e i genitori che lavorano diciotto ore al giorno per condurre un modesto negozio»). «La Torino di Gozzano – scriveva allora Bobbio – è quella gianduiesca [che non amo, dice Bobbio] e quella ancora più detestabile delle ‘golose’*». È la città «che io rammento come un vizio da cui anch’io, ragazzo di famiglia bennata, ho dovuto redimermi» – proprio così dice Bobbio: redimermi –, ma ci sono voluti gli anni terribili della Resistenza. All’opposto «la Torino di Gobetti è la città dell’occupazione delle fabbriche, dei primi gruppi di opposizione al fascismo, aperto a una cultura militante, tanto sicura di sé da apparire spavalda, che guarda all’avvenire tempestoso, sfidando il tiranno che sta per domare con la frusta del domatore un paese di servi». Augusto Monti – a sua volta Maestro tanto di Bobbio quanto di Gobetti – parlò di una Torino (anzi di un Piemonte) «delle Vette» e di una «della Piana»: una rigorosa e giansenista, creativa e intransigente come è chi sceglie la strada difficile della scalata e della responsabilità di fronte ai problemi complessi, l’altra transigente e facilona, molle e disponibile, facile all’ipocrisia e al mercimonio… Lui aveva scelto «le Vette» – e l’aveva pagato –, ma conosceva benissimo il detto, molto torinese «Loda le Vette, ma tente la Piana». Tenersi la Piana, come mostra appunto di praticare con autocompiacimento l’establishment economico-finanziario e la sua protesi politico-amministrativa, oggi.

Oggi, quando neppure le tracce delle fabbriche e delle loro occupazioni, né quelle delle antiche barriere operaie resistono all’ingiuria del tempo; quando delle Vette scelte dai vecchi combattenti del Partito d’Azione Torinese non rimane più traccia neppure degli atteggiamenti dei loro storici, tuttavia quella vecchia frattura che attraversa la città – e dall’esito del cui conflitto dinamico è dipesa la depressione o la creatività del suo tessuto sociale e culturale – continua a lavorare sotto traccia. E l’8 dicembre ha fatto segnare un buon punto a favore della Torino delle Vette (o, quantomeno, della Montagna).

* Precisazione letteraria:
Ecco alcuni versi della poesia Le Golose di Guido Gozzano, a cui si riferisce Bobbio.
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Signore e signorine-
le dita senza guanto-
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!
Perché niun le veda,
volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta
divorano la preda. […]

Da Volere la Luna

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