Il Nobel per la pace 2011 alle donne africane

1 Marzo 2010

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Manuela Scroccu

Le donne africane portano il loro continente sulle proprie spalle. La poetessa e giornalista eritrea Elisa Kidané (di cui potete leggere le raccolte di poesie Ho visto la speranza danzare e Fotocopia a colori, per la casa editrice veronese Novastampa e l’antologia Orme nel cuore del mondo per le edizioni Studio Iride) canta di loro, che camminano ogni giorno sulle strade con carichi di sopravvivenza sulla testa e sulle spalle, “curve sui campi, piegate sotto pesi atavici, in piedi alla fermata del tram della sopravvivenza, accovacciate negli angoli di tutti i mercati dello sfruttamento”. Chine sotto il peso di quelle pesanti taniche gialle che vediamo sfilare veloci nei reportage sull’Africa,  costrette a camminare per chilometri per andare a cercare l’acqua necessaria a svolgere i lavori domestici essenziali, per poi tornare a casa a lavorare nei campi o nei mercati per sostentare la famiglia. Il loro lavoro è sotterraneo. Pur rappresentando l’80% della forza lavoro che opera nella produzione alimentare, per i loro governi e per le leggi dei loro paesi queste donne non esistono. La possibilità di accedere a crediti concessi dalle banche, infatti, è quasi impossibile in quanto per poter ottenere un finanziamento è necessario possedere dei beni, condizione spesso negata alle donne. Eppure gran parte dei mercati dell’Africa è tenuta in piedi, in maniera molto spicciola e concreta, dalle numerose associazioni di imprenditoria femminile che si sono costituite negli ultimi anni. Infatti, il denaro in mano alle donne riesce a fruttare per tutta la comunità. Tante di loro, sempre più spesso, si organizzano in gruppi e cooperative, creano mutue di solidarietà, organizzano scuole di villaggio per le ragazze. Non verranno mai quotate in nessuna borsa del mondo ma il loro coraggio e la loro costanza hanno impedito all’Africa di precipitare. Quando le donne stanno bene, tutto il mondo sta meglio. Questa frase di Amartya Sen, premio nobel per l’economia nel 1998, descrive perfettamente il ruolo fondamentale che le donne africane potrebbero giocare nel futuro della loro terra. Non sono solo quelle colte e intellettuali, come l’ambientalista keniota Wangari Maathai, prima donna africana a vincere il Premio Nobel per la Pace; o come Rose Mukantabana, che presiede l’unico parlamento al mondo a maggioranza femminile, quello del Ruanda, dove sono donne anche le ministre dell’Economia, degli Esteri, delle Infrastrutture. Le loro storie sono importanti e meritano di essere ricordate ma esse non sono che un’espressione visibile di quelle donne comuni, invisibili ai media, che vivono nei villaggi e nelle grandi città e che hanno tenuto in vita, con il loro lavoro, un intero continente. Donne che reggono l’economia familiare permettendo la sopravvivenza anche in situazioni di estremo disagio; che si prendono sulle spalle il compito dell’educazione sanitaria, in un paese martoriato dall’HIV; che, attraverso il microcredito, danno una speranza di crescita a tutta la loro comunità; che urlano di dolore contro la guerra per poi ricostruire faticosamente le basi della pace. Perché, allora, non riconoscere e valorizzare il ruolo delle donne in Africa e dare loro il Premio Nobel per la Pace 2011? La proposta è stata lanciata per la prima volta dal CIPSI, Coordinamento di Iniziative Popolari di Solidarietà Internazionale, che raggruppa oltre 40 organizzazioni non governative che operano nel settore della solidarietà e della cooperazione internazionale, e dall’Associazione Chiama Africa, durante  il seminario internazionale “Per un nuovo contratto umano e sociale tra Africa ed Europa”, tenutosi a Dakar il 30 dicembre 2008. Da allora i promotori sono stati molto attivi, soprattutto nella rete, per far conoscere la proposta e raggiungere l’obiettivo di due milioni di firme da inviare al comitato per l’assegnazione del Nobel. Si può firmare qui, su http://www.noppaw.net/, e si possono leggere tante testimonianze sull’impegno delle donne africane nel contribuire alla rinascita del proprio paese. Un Nobel collettivo è una cosa strana, un po’ folle, nella società dell’immagine. Non c’è un volto, non c’è il logo di un’associazione che si batte per una giusta causa. Si può premiare una storia collettiva? Sarebbe bello se si potesse riconoscere la fatica e insieme dare forza al lavoro sottile, silenzioso di queste donne che stanno facendo rifiorire il futuro di un continente stremato dai saccheggi del ricco mondo globalizzato e dalle guerre per accaparrarsi le risorse di cui questa terra è ricca. La campagna per l’attribuzione del Nobel per la pace alle donne africane ha un nome molto bello: walking Africa deserves a nobel. L’Africa che cammina: “Sei tu curva piegata in piedi accovacciata china  sempre tu che curi che ami  che soffri che non ne puoi più ma non cedi non molli non ti fermi non ti arrendi” (di Elisa Kidanè).

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