Inventare il romanzo

1 Ottobre 2010

piras

Natalino Piras

Attualmente, non ci sono eroi positivi in giro. Perlomeno in letteratura, con capacità di epica, di vasto respiro. Banditi e accabadoras quante  ne volete – e tolgo dal contesto le mie brujas e sepultas-  ma poche o nulle le vite esemplari. Quasi che la realtà, concreta e virtuale, non ne faccia vedere. Oppure si sia ipovedenti  se non ciechi del tutto.  Bisogna intendersi con quell’ “esemplari”.  Non riguarda solo santi e altra pia gente ma modelli da istituire e raccontare, comunque  consapevoli che sia i santi che i pii, uno per tutti il pius Aeneas, sono da sempre  consistente  fonte di romanzo. I modelli d’oggi, anche quelli di empietà (“empio” è la negazione di  “pio”) latitano o sono altrove oppure non si vuole vederli. Michelangelo Pira parlò per noi sardi di letteratura alla macchia intendendo con questo sia i banditi sia l’esclusione della produzione letteraria sarda dai circuiti della critica che conta e dal mercato. Oggi che quell’esclusione è stata colmata continua a esserci una letteratura alla macchia che vorrebbe istituire modelli differenti da quelli dei banditi e delle accabadoras. Il contrario della macchia, absconditum,  è la visibilità, l’editum. Ma è una visibilità legata, di forti contraddizioni.  Si ha cioè bisogno, il mercato lo impone, di modelli in negativo e sembra che nessuno più dei sardi sia capace di incarnarli. Banditi, sanguinari, mostri e orchi, spesso senza senso del picaresco, senza ironia, molto sangue e folklore senza seria ricerca sul campo.  Si inventano tradizioni attraverso personaggi “in nero”, solo in nero,  anche dove queste tradizioni non sono mai iniziate. E tutto quanto ruota intorno a questo “in nero” fa indotto e mercato, spendibile e acquistabile sino a dare immagine e carisma a chi sa come utilizzare tipi e stereotipi, ché gli archetipi sono un’altra cosa, da sempre “fuori moda”. Si ha veramente bisogno di inventare  nuovi modelli. Ripartiamo ancora da Pira, da quando bollò, con criticabile virulenza, Grazia Deledda. Siamo agli inizi degli anni settanta. Applicando concetti allora di moda, che tutti nascevano dalla “morte del romanzo”, utilizzando categorie inventate da Roland Barthes, Pira bollò la Deldda come “scrivente” incapace di essere “scrittrice”. Solo ripetizioni di meccanismi nella scrittrice nuorese, niente capacità creativa. Pira non vedeva allora quanto era visibile: la grande capacità di fabula della Deledda, il suo saper interrelare, anche come fattore inconscio, la montagna nuorese, i suoi tipi ma anche gli archetipi, a una più universale brughiera: quella di Walter Scott, ma anche delle sorelle Brontë, di Thomas Hardy eccetera. Anche Spoon River, il corpus poetico di Emily Dickinson o un romanzo come “Ethan Frome” di Edith Warthon che a rileggerlo oggi sembra archetipico della “Solitudine dei numeri primi”. Anche il romanzo di Giordano potrebbe  servire nella cerca di istituzione di modelli che si allontanino dal domino dell’ “in nero”. Per fare questo bisogna però avere dentro forte capacità di contestazione del proprio mondo, della propria appartenenza: come la ebbe Grazia Deledda, altro che categorie barthesiane! quando violò le imposizioni, su connottu, che le proibivano di rivelare in scrittura i segreti della campagna, lei donna, delle “vie del male”, di quanto come lavoro giovanile aveva immagazzinato facendo ricerca sul campo. Contrastare l’empasse consapevoli del rischio: dell’emarginazione, della solitudine. Pensate che Grazia Deledda quando tornò a Nuoro vincitrice del Nobel non trovò nessuno ad aspettarla alla stazione. La stessa Nuoro che oggi fornisce, come nuova moda, tanto di materiale all’ “in nero”. E così, tra stereotipi e mercato, il cerchio si salda. L’invenzione di tradizioni mai esistite coincide con il rilancio del modello “solo negativo” che i sardi danno. Per restare ancora con Pira il successo di tanti stereotipi sardi venduti oggi  a migliaia e migliaia dal mercato ottunde tutto il mondo archetipico e visionario che il suo romanzo postumo “Sos sinnos” contiene. Non è un caso che “I segni” siano nella stessa campitura, sconfinato orizzonte, del “Giorno del giudizio” di Satta ma anche di “Pedro Paramo” di Juan Rulfo. Perché tutti dominati dall’idea di inventare romanzo e non pereseguire tradizione. Già: inventare romanzo. Mi ci provo, pure  raffrontando il bittese colonnello Palmas (per notizie su di lui intorno rinvio al mio sito www.natalinopiras.it) ad Aureliano Buendia  di Garcia Marquez. Non mancano all’inventato colonnello Minero i referenti storicamente comprovabili del vero colonnello Palmas: salvò la vita a un Savoia, il futuro re Umberto I, prese parte alla breccia di Porta Pia, fu candidato nel partito popolare di inizio Novecento. Ma rispetto a tanti stereotipi dell’ “in nero”, il colonnello Palmas è un modello absconditum.  Non è nella tradizione di una nuova forma narrativa, di nuovi contesti tutti da inventare.

1 Commento a “Inventare il romanzo”

  1. Giovanna Elies scrive:

    La nuova narrativa, se così si può chiamare, a mio avviso è una narrativa da riciclo: temi e soggetti già più o meno abbondantemente visti in epoche passate, ritornano prepotentemente alla ribalta e, cosa sgradevolissima, vengono spacciati come nuovi di zecca. L’abitudine, tuttavia, risale ai tempi dei tempi, nel senso che ogni buon scrittore che si rispetti ha preso qualche idea o passaggio dai predecessori oppure dagli antichi greci o dai latini. Ovviamente, il tutto condito secondo la propria salsa. In questi ultimi tempi, invece, mi pare che non solo le idee della nuova letteratura abbiano, in molti casi, paternità lontane nel tempo ma anche le varie stesure siano tristemente arroccate a questo tempo lontano, salvo il codice. Il codice, appunto, è modernissimo, talmente moderno da uguagliare quello dei più popolari settimanali; ossia: scorretto, privo di congiuntivi, ridotto al minimo, intriso di neologismi ( chi più ne ha più ne metta), farraginoso nella non costruzione sintattica,, immediato nella non espressione, dialogato in modo incomprensibile, spesso talmente psicoanalitico che solo il Padre eterno può capirlo

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